venerdì 8 febbraio 2019

Ho saputo da qualcuno che era sopravvissuto ad Auschwitz.



Lui non ne parlava. Non parlava quasi mai. Nel paio d’anni che l’ho frequentato, avremo conversato tre o quattro volte. Altrimenti solo “buonasera” quando entravo nel suo negozio e “buonasera” quando me ne andavo. In italiano, lingua di cui conosceva qualche parola, imparata ora immagino dove. Per il resto di lui non so nulla. Solo che era ebreo. Tra i miei ristoranti di allora c’era Hanna, in Dob utca, un locale kosher che mi aveva fatto conoscere lo stesso vicino di pianerottolo che mi ha insegnato a leggere l’Ebraico. L’unica volta in cui l’ho visto lontano dal suo bancone è stato lì, un venerdì sera, mentre cantava in coro con altri ebrei ortodossi, reduci dalla Sinagoga e dalla funzione per lo Shabbat. Poi so che era tifoso della Juventus. L’ho scoperto un lunedì, entrando nella sua libreria con la Gazzetta sotto il braccio. Che volete, sono tifoso anche io. Di basket, ma non credo faccia troppa differenza. Mi disse che amava la Juve per via di un suo conoscente che doveva averla allenata negli anni ’30. Sì, era vecchio e proprio come lo immaginerete, con un gran barbone bianco e gli occhiali cerchiati di metallo, tondi e spessi. Era molto vecchio e credo fosse molto colto. Doveva esserlo, per tenere aperta una libreria antiquaria nella colta Budapest di allora. Nella coltissima Ferencváros, anzi. Da lui ho comprato parecchio. Nulla di troppo speciale. Più che altro libri seicenteschi di cui ammiravo le illustrazioni. Poi un giorno ho trovato la libreria chiusa. Punto. Di suo mi restano quei libri e il ricordo di una frase. Una sera, forse proprio l’ultima sera in cui l’ho visto, sono entrato nel suo negozio con un’espressione torva. Qualche problema sul lavoro, un camion che non era arrivato o un altro che non era partito. Insomma, dovevo avere l’aria depressa. Forse arrabbiata. Lui mi ha salutato con il solito “buonasera”. Poi però ha continuato a guardarmi. Dritto in faccia, con le pupille perse dietro i fondi di bicchiere di quei suoi occhiali. Mi ha osservato, mi ha sorriso e mi ha detto: “Ha nem vagy boldog, te vagy az egyik.” Spero di averlo scritto bene. In italiano significa: “Se non sei felice, sei uno di loro.”
Mi sono trovato a ripensare a quella frase qualche anno fa, leggendo da qualche parte un “se non sei felice sei complice” che voleva dire esattamente la stessa cosa. La capisco davvero solo ora, però, vedendo cosa può provocare l’insoddisfazione nell’animo umano. Ora che so chi sono “loro”, i frustrati odiatori seriali, e mi sconvolge vedere su quanti complici possono contare.

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