martedì 27 febbraio 2018

Immigrazione e sicurezza.

Il "mio" giornale dà questo titolo a una sezione. Ne fanno parte diversi articoli. Nel principale, si esaminano le proposte dei partiti in quei campi. In un altro articolo, il ministro degli Interni afferma che “gli italiani non sono razzisti”. Se davvero le cose stanno così, però, resta da spiegare quella strana associazione di termini. Il binomio immigrazione e sicurezza, infatti, non ha ragion d’esistere. Nessun dato collega il numero degli immigrati a quello dei delitti. Le statistiche, se proprio, mostrano che all’aumentare degli immigrati ha fatto riscontro una costante diminuzione dei reati, e in particolare degli omicidi, mai pochi quanto ora. Non bastasse questo, a farci sospettare di razzismo ci sono mafia, ‘ndrangheta e camorra. Un problema meridionale? No: le mafie ormai sono presenti ovunque. Sono una questione nazionale. Sono, da molti punti di vista, la Questione. Nei dibattiti sulla sicurezza, però, non sono neppure citate. Si preferisce sproloquiare sui rifugiati. Avete presente le amministrazioni locali leghiste? Si scatenano contro i vu’ cumprà e i loro tappetini ma non sono così pronte (per usare un eufemismo) a denunciare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nei loro territori. Bene. Gli italiani non saranno diventati razzisti, ma troppi di loro, non solo a destra, sembrano diventati leghisti. Se non collusi, ridicoli. Se mentre un quarto del paese è controllato dalle mafie, tutto quello cui riescono a pensare sono delle misure draconiane contro l’immigrazione, tragicamente ridicoli

lunedì 26 febbraio 2018

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

Sì, caro giornalista, recita il Confiteor, prima di scrivere un altro articolo o di andare in onda con la prossima trasmissione. Prima di affettare preoccupazione e indignazione. Sei disgustato da questa campagna elettorale? Sicuramente. E ti angoscia che certi guitti siano prossimi governare. E non ti capaciti che davvero si stia discutendo di “difesa della razza” o dei meriti del fascismo. La nostra politica, però, non si è ridotta a questo nello spazio di un mattino. Quello che ora offende la tua squisita sensibilità democratica, la tua raffinata cultura e la tua indubbia intelligenza, è il punto d’arrivo di un percorso più che ventennale. Un percorso che tu hai tracciato. Proprio tu, assieme ai tuoi editori. Senza volerlo, credo. Solo per conservare qualche lettore o conquistare qualche spettatore. Solo per qualche lira o Euro in più. E’ l’unica attenuante che ti puoi concedere. Per il resto sei stato tu a rendere popolari gli urlatori. Li hai portati in televisione. Li hai invitati puntata dopo puntata. Perché facevano ascolto. Perché rendevano le tue telerisse infinitamente più divertenti delle vecchie tribune politiche. Le Santanchio o chi fossero a dominare gli schermi. Altri urlatori sulle prime pagine dei giornali. Titoloni riservati a ogni cavolata. Affermazioni da liquidare con un’alzata di spalle trasformate in tormentoni. E chi cercava di ragionare messo in un angolo. E chi non “bucava lo schermo” lasciato a casa. Perché grazie te, e a quelli come te, la politica era diventata spettacolo. Una forma d’intrattenimento come la stessa cronaca. Perché anche le notizie devono attirare pubblico; contribuire al fatturato. E niente attrae il pubblico come i morti. I morti e le emergenze. Reali? Poche. Le altre, a cominciare da quelle della sicurezza e dell’immigrazione, create ad arte. Emergenze strillate ogni giorno, tutto il giorno, e commenti affidati a personaggi da avanspettacolo che facevano a gara a chi la sparava più grossa; a chi sapeva meno, ma accusava, insultava e strepitava, di più. Commedianti di bassa lega che hai fatto diventare protagonisti di quella politica che ora ti scandalizza. Modi di argomentare che hai incoraggiato e ora ti fanno scuotere la testa. Mentre ti chiedi come e perché in inchieste, servizi e coraggiosi (ma quando mai) libri denuncia. Altre inutili geremiadi nel paese delle geremiadi. In una società intossicata dai veleni che tu hai contribuito a diffondere. In una vita pubblica invasa da una barbarie cui tu, proprio tu, con le tue scelte, hai aperto la porta.

sabato 24 febbraio 2018

Lasciate perdere quel cretino.

Sì, parlo del Carotone. Della sua idea di armare gli insegnanti. Una mitragliatrice sulla cattedra, un campo minato attorno alla lavagna e la sicurezza è garantita. Guardate i ragazzi. Quelli che organizzano raduni e marce per avere leggi che limitino la vendita di armi. Quelli che guardano dritto nelle telecamere per accusare i politicanti d’essere quel che sono: dei supini dipendenti delle varie lobby. Quei ragazzi sono il meglio dell’America. Loro e i loro fratelli di poco maggiori, che avrebbero votato Bernie all’ottanta per cento o giù di lì. Mettete da parte anche l’anti - americanismo. Siamo a mezzo secolo dal sessantotto. Ricordate dove è iniziato? Non a Parigi: a Berkeley, e nel 1964. Capirete perché quei ragazzi fanno sperare anche noi. L’Atlantico è un oceano stretto: quel che accade su una sponda, si ripercuote sull’altra. Guardate a quei giovani e guardate ai nostri. Provate a parlarci. Non ho dati statistici. Ne conosco pochi. Figli di amici. Qualcuno che è venuto alle mie presentazioni. Qualche compagno di classe dei miei figli. Pochi ma tutti sorprendenti. L’esatto contrario di come sono descritti. Col telefonino sempre in mano? Vero. Come noi ci intrattenevamo in altri modi, non più intelligenti. Per il resto sono come eravamo noi, alla loro età. Sono curiosi e aperti. Se non sanno è perché nessuno ha insegnato loro. Perché i primi ad avere la testa infilata nei telefonini sono i loro genitori. Basta mettersi a raccontare e loro ascoltano. Basta dire e loro chiedono. Come facevamo noi, magari con i reduci e i vecchi partigiani. O anche solo con chi aveva vissuto proprio il sessantotto. Sono come noi e meglio di noi. Cresciuti dentro la crisi; con i soldi contati. Ma vogliono questo e quello? Molto meno dei paninari anni ’80. Hanno, soprattutto, una praticità che noi non avevamo. Si preoccupano del lavoro che faranno. Ti sorprendono con ragionamenti straordinariamente maturi. E non hanno pregiudizi. Noi ci sforzavamo di non averne; loro proprio non ne hanno. Ovvio, pensi poi. Hanno il compagno di banco nero. Si sono innamorati di una ragazzina nordafricana o romena. Le cavolate di Salvini, Meloni & co. per loro sono incomprensibili. Sparate di una politica piena di polvere e con le ragnatele; buona per accalappiare i voti degli sfigati di mezza età. Una politica che non è per loro, come non sono per loro il nazionalismo da operetta, i saluti romani e le teste rasate. Contrastano, oltre a tutto, con quella loro praticità; con la loro esigenza di soluzioni reali a problemi veri. Non a caso, i ragazzi americani sognano, udite udite, la social-democrazia all’europea. Da noi, altro che Brexit, otterrà il loro voto chi si deciderà a costruire davvero l’Europa. E se non lo farà nessuno, lo faranno loro. Con buona pace del fuoriuscito dal mausoleo, dell’ubriacone da bar sport e dei loro elettori. Mandando a quel paese un paio di generazioni, compresa la mia. Generazioni che, basta vedere per chi hanno votato e pare vogliano votare, a questo punto non li valgono.

giovedì 22 febbraio 2018

Sono cresciuto nel paese delle stragi,

delle stragi pre-elettorali. Non posso farci niente. E’ una questione di sangue. Di troppo sangue versato. Non posso assistere al ritorno della violenza politica senza chiedermi cosa ci sia dietro. La mano lunghissima del nuovo zar? Il capitalismo amorale delle multinazionali che non tollera limitazioni al suo strapotere? Io so che un’Italia nel caos e un’Unione Europea indebolita fanno comodo a tanti. So questo e ho visto in azione, per almeno un decennio, tutte le tecniche della disinformazione. Ho visto l’Europa trasformata in un mostro, nella colpevole di tutti i mali, da giornali di destra e sinistra. Ho visto creare l’emergenza sicurezza. Sì, creare a tavolino. Come seguendo un copione. Un titolo e un mortammazzato al giorno per convincere gli italiani, gli abitanti di quello che fino a oggi è uno dei paesi più sicuri al mondo, di essere in pericolo. Per indurli a restarsene in casa. Magari davanti agli schermi. A nutrirsi di altre paure. Ho visto l’arrivo dei soliti centomila rifugiati raccontato come un’invasione. Come se ci fossero decine di milioni di africani pronti ad attraversare il mare. Ho visto seminare la paura. Il sospetto. Il pregiudizio. Da notizie false fatte girare in rete. Da demenziali servizi dei tiggì. Da telerisse e tuttologi un tanto il chilo. Tutti a diffondere sfiducia. Nello Stato. Nei politici che sono tutti uguali. In chiunque abbia qualcosa perché di sicuro l’ha rubata. In chi non ha nulla perché di certo non ha voglia di far niente. Abbiamo assistito alla sistematica demolizione del nostro edificio sociale. Visto sgretolare il cemento che lo teneva insieme. E, in tutto questo, il riemergere del fascismo. La sua ricomparsa come forza politica. Tra strusciatine e ammiccamenti. Con l’aiuto dei revisionisti e dei relativisti. Di quelli che “i treni arrivavano in orario” e di quelli per cui Hitler e Romano Prodi erano la stessa cosa. Perché sinistra uguale Pol-Pot uguale genocidio "e allora di cosa parliamo?" Con la complicità di tanti e nel silenzio di quasi tutti. Magistratura assolutamente compresa. Abbiamo visto il nostro paese trasformato in una bomba. Senza che ce ne accorgessimo. Distratti da chi ci sa distrarre. Intrattenuti da chi sa intrattenere. Ora, con un groppo in gola, possiamo solo sperare che nessuno sia così stupido da voler fare la miccia.

mercoledì 21 febbraio 2018

Una piazza abbracciata dai portici.

Le case colorate dei pescatori che guardano il mare. Il bianco abbacinante di case antiche quanto l’uomo. In Puglia o a Pantelleria. Una serata di quelle che si sta bene in maglietta. Gli amici di sempre. Le gambe snelle e abbronzate delle ragazze. Un Negroni, in onore di Gianni cui devo tanto. Una pizza margherita. D’inverno, un piatto di pizzoccheri come li faceva nonna. E un bicchiere di vino. E le caldarroste, il cibo poverissimo di tutta la nazione. I braschér, per me. Le rusedde, per un mio amico calabrese. Da qualche parte un nuovo Lamborghini ha appena litigato con un nuovo Ferrari. Un Raffaello e un Michelangelo si guardano in cagnesco. Naturale. Di una natura viscerale che, però, ha illuminato il mondo. E le chiese. E i palazzi dei signori. E i paesi che sembrano esserci da sempre. Partoriti dalla collina, dal monte o dalla pianura. Due etruschi che sorridono. Marito e moglie, con una coppa di vino in mano. Saranno morti, ma sanno godersi la vita. Cartoline e ricordi patetici di emigrato? No. Quello che dura; che resiste. Anche mentre l’uomo di Boccioni avanza, con quel suo ginocchio proteso come un rostro, tra i nuovi grattacieli di Milano o Torino. Anche mentre tutto sembra immobile. In bilico. Tra dramma e melodramma. I profumi del gelsomino che si avvinghia al pergolato e del caffè che sale nella moka. Dall’orto vecchio, oltre quel muro che pare aver letto Montale, la brezza della sera e l’odore di un gran cespuglio di rosmarino. Per quanto ci si possa impegnare a distruggerla, l’Italia di sempre. Non immutabile: eterna.

martedì 20 febbraio 2018

I centri sociali sono un pericolo per la democrazia,

dice Silvio Berlusconi. Un termine vago, “democrazia”, quando passa per democraticamente eletto anche Putin. Se invece volesse scoprire il volto del peggior nemico della Repubblica nata dalla Resistenza, dei principi su cui poggia la nostra Costituzione, Berlusconi non avrebbe che da guardarsi allo specchio. Non lo sto demonizzando. Penso solo alle sue televisioni; al loro impatto sulla nostra visione mondo. Emilio Fede e i suoi colleghi influenzavano il voto, ma la tivù commerciale era tutta, ventiquattro ore il giorno, un veicolo di disvalori. Film e telefilm, di solito Made in Usa, celebravano come virtù quelli che per i nostri nonni sarebbero stati difetti. L’individualismo. Il materialismo. Il possedere e l’apparire come sostituti dell’essere. Il tutto con un linguaggio adatto a un pubblico di adolescenti. Magari cinquantenni. Anche i quiz sembravano disegnati per dei bambini. “Forza signora. La capitale della Francia è ...? Forza, Pa ... Pa ... Sììì: Parigi! Bavissima”. Lessico semplice e grammatica minima, per soddisfazioni superficiali ma immediate. Sempre. Le tette di Tini Cansino, per tenere gli occhi dei maschi incollati allo schermo, e battute di bassa lega per far ridere tutti. Risate automatiche, che arrivavano senza pensare. Drive in, per chi se lo ricorda, come inizio della fine? Un momento della trasformazione degli italiani nell’orrida ggente dei futuri proclami berlusconiani. Ggente senza più ideali e senza radici. Consumatori. Di tutto. Anche della politica. Non più confronto d’idee ma scontro di personalità. Fatta non più di dibattiti, ma di risse. Una forma d’intrattenimento in più per ex cittadini ridotti in spettatori. Ormai convinti che nulla contasse davvero. Traditi da Tangentopoli (e Craxi-Andretti-Forlani un posto tra i nemici della Repubblica certamente lo meritano). Il cui unico obiettivo, o sogno, erano diventati i soldi. Il denaro apparentemente facile dei campioni dello sport. Quello generato dal nulla delle magie finanziarie. Soldi che poi, sono venuti a mancare; che anche i più ottimisti hanno cominciato a capire non sarebbero mai stati loro. E’ arrivata la crisi. Per tanti era già arrivata la disillusione. Produci, consuma, crepa. Tutto si è ridotto a questo e non può bastare. E’ dis-umano. come le vite passate davanti agli schermi. Poco importa che siano diventi quelli dei computer. Dalle tette di Tini si è arrivati al rancore che è la cifra della nostra società mentre l’ansia di avere si è trasformata in paura di non avere più e nella certezza di essere soli. Senza più appartenenze. Nel nulla. In un deserto che è il terreno di coltura dei nuovi fascismi. Movimenti che forniscono identità e fanno sognare. Magari il ritorno a un ventennio che il revisionismo, che in quelle televisioni ha trovato ampi spazi, ha trasformato in un’età dell’oro. In una specie di socialdemocrazia senza democrazia (ma votare, si sa, non serve a niente). Nessuna voglia di giustificare chi prende a botte dei poliziotti. Proprio nessuna. Pasolini ha detto, a suo tempo, tutto quel c’era da dire. Ingiusto pure vedere come solo nostro un fenomeno che è di tutto l’Occidente. La crisi della democrazie, in fondo, è il prodotto ultimo del consumismo neo-liberista. Di una non-ideologia che, però, è stata tradotta in italiano e diffusa tra gli italiani, prima di altri e meglio di chiunque altro, da Canale 5, Italia 1 e Rete 4.

lunedì 19 febbraio 2018

A Mazzini. A Mazzini e a Salvini.

Questo mi viene da rispondere, alla finestrella di Facebook che mi chiede a cosa sto pensando. A Mazzini di cui mi sono ritrovato a discorrere con i miei figli, ieri sera. Una delle nostre conversazioni attorno al caffè. Caffettiera tedesca (anzi, danese) per un rituale dal nome spagnolo “sobremesa”, letteralmente sopra il tavolo, e il tentativo, da parte mia, anche di passargli qualcosa d’italiano. Qualcosa in più dei cromosomi e del passaporto, intendo dire. Quanto a Mazzini, ci siamo arrivati partendo da una piazza con il suo nome. Dalla loro voglia di sapere chi fosse l’uomo cui era intitolata. Ho cercato di spiegarlo. Repubblicano e rivoluzionario. Uno degli animatori del Risorgimento. Inseguito dalle polizie, mentre ovunque regnavano i monarchi. Esule a Londra e a Ginevra, oltre che in chissà quanti altri posti. Un uomo di visione. Un patriota che aveva già capito come il destino dell’Italia coincidesse con quello del continente. Che voleva una Giovine Italia dentro una Giovine Europa. Idee troppo avanzate per l’Italia dei suoi tempi. Per un’Italia, come proprio lui scrisse da qualche parte, che “pensava il pensiero di cinquant’anni indietro”. Un’Italia, però, meno anacronistica di quella che voterà per Salvini. Lasciando stare le sue solite sparate su immigrazione e sicurezza, in cosa consiste il suo pensiero? Cosa propone? Un’Italia che rifiuta le nuove tecnologie e mantiene le vecchie proteggendole con dazi. Una specie di nuova Albania in rotta di collisione con l’Europa. Magari con le banconote del Monopoli usate come carta moneta. In nome di un sovranismo da operetta. Ridicolo se appena si accende il cervello. La Corea del Nord e il Pakistan hanno l’atomica. In buona sostanza, può procurarsela chiunque. E sarà sempre peggio. Tornare ai nazionalismi ottocenteschi, in questo scenario, vuole dire imboccare la strada verso l’apocalisse. Nazionalismi che hanno già provocato due guerre mondiali, in un pianeta diventato piccolissimo. Reso tale dalle nuove tecnologie. Una realtà che impone scelte contrarie a quelle di Salvini. I problemi di oggi sono globali e richiedono soluzioni globali. Dal cambiamento climatico al dominio della finanza, posso essere affrontati solo dall’unione tra stati. Da un’Europa sempre più coesa e da un ONU cui vanno attribuiti reali poteri. Anatemi per i ducetti della politica mondiale. Per l’isolazionismo di Trump e per l’imperialismo di Putin. E per Salvini? Non credo proprio ci pensi. Mazzini guardava alla Storia; le sue idee hanno ispirato Gandhi quanto i nostri Padri Costituenti. La dimensione di Salvini è un’altra. Su youtube c’è un video. Lui, con una birra in mano. Forse mezzo ubriaco, canta in coro con altri mezzo ubriachi un ritornello razzista contro i napoletani. Una scena girata sulla porta di un bar frequentato da tifosi. Magari sotto lo sguardo compassionevole di una statua di Mazzini, il posto dove uno come lui sarebbe dovuto restare.

sabato 17 febbraio 2018

Il fascismo non sta tornando.

Non se n’è mai andato. C’era già prima del regime. Gobetti voleva dire questo, definendolo “autobiografia della nazione”. E’ rimasto negli apparati dello Stato anche dopo il 25 aprile perché non si poteva ripartire da zero. E’ rimasto anche in tanti italiani. Nella voglia di uomo “forte”; di un taumaturgico “lui” capace di guarire i mali del paese senza scontentare nessuno. E’ rimasto anche in chi si ritiene lontano dal fascismo, ma pronuncia frasi fasciste nello spirito: “Il governo dovrebbe fare una legge.” A tornare sono i simboli del fascismo, ora esibiti con orgoglio nelle nostre strade. E' nuova l’aperta rivalutazione del ventennio. Fenomeni che non si spiegano solo con la crisi. Che si chiariscono proprio ripensando all’Italia di quasi un secolo fa. Rispetto allora non ci sono i reduci della Grande Guerra; non c’è una generazione che ha imparato a uccidere nelle trincee. Solo questo, temo, sta contenendo il risorgere delle squadracce. E il quadro internazionale, prima che la solidità delle istituzioni repubblicane, rende impossibile una nuova marcia su Roma. Come nel 1922, però, regnano la frustrazione e disillusione. Allora erano in chi tornava dal fronte per scoprire che nulla era cambiato; che i suoi sacrifici non erano serviti a niente. Oggi i disillusi e frustrati sono decine di milioni. Non solo in Italia. Sono gli ultimi e dimenticati? Possono sentirsi così alcuni dei giovani con la testa rasata. Quelli che li guardano con simpatia, però, appartengono al ceto medio. O vi appartenevano fino a ieri. Vittime della globalizzazione? Sì, ma non solo della concorrenza cinese. Soprattutto del trionfo del neo-capitalismo. Vivono a suburbia e ovunque è suburbia, senza possibilità di fuga. Sono gli sradicati di cui scriveva già Pasolini. I testimoni del fallimento del consumismo. Perché una marca di scarpe non sostituisce un’identità. Perché un modello di telefonino non può sostituire un ideale. E senza identità e ideali tutto diventa insopportabile. Mentre sono felici solo i produttori di psicofarmaci, si cercano capri espiatori e fioriscono i leghismi. Definiscono di nuovo dei gruppi, seppure per esclusione: “Noi non siamo loro”. Indicano bersagli conto cui sfogare la rabbia. L’inconfessabile disperazione. Dietro la ferocia dei commenti in rete si legge l’invidia verso i migranti. Anche quando sono stipati su un barcone. In procinto di affondare, ma non in quell’ufficio o fabbrica; non dentro il grande tritacarne. Un desiderio di fuga che spiega anche la nostalgia per Mussolini. Per un’epoca di disastri anche economici, ma di cui non si sa nulla. Fantasticata. Trasformata in un’età dell’oro. Per un fascismo che è l’unica narrazione novecentesca a non aver sofferto il passaggio del millennio. Viva come lo sono i fantasmi: perché già morta e sepolta all’arrivo del mondo McDonald. Un fascismo che pure restituisce identità, con la sua mistura di nazionalismo e razzismo, e che ha la forza del nulla. Interpretabile come garanzia di conservazione da chi ha ancora qualcosa da perdere; visto come promessa di distruzione da chi, pur di uscire dalla gabbia in cui si è ficcato, è pronto a tutto. Un nulla che soddisfa bisogni immateriali e che un nuovo antifascismo deve sfidare su questo piano. Aumentare il Pil non basta. Bisogna ricostruire una società civile ridotta a somma di rancorose solitudini. Creare di nuovo senso di comunità e apparenza. Con la forza delle idee e il coraggio degli ideali. Giorno dopo giorno. Per tutto il tempo che ci vorrà.

giovedì 15 febbraio 2018

E’ una Caporetto americana.

Americana e non solo. Per i morti e non solo. Diciassette i ragazzi uccisi ieri in Florida. Avrete letto. Saprete. Conoscerete ogni dettaglio. Una scuola superiore. Uno studente espulso che si procura un fucile automatico e torna per fare una strage. Buona per le news. Buona per il business. Dal nostro inviato. Voce concitata. Poliziotti che vanno e vengono. Via con la pubblicità. Una strage, l’ennesima, dentro una carneficina. In America le armi da fuoco provocano ogni anno 30.000 morti. Tanti quanti a Caporetto, appunto. Ogni anno. E senza un Piave su cui ritirarsi. Comprare armi da quelle parti è facile come andare a far la spesa. Ci sono pochi controlli, se ci sono, anche per acquistare dei fucili d’assalto. Il problema, alla fine, è quasi tutto lì. Lo sanno benissimo anche gli americani. Non sono pazzi. Una solida maggioranza di loro vorrebbe che fossero introdotte limitazioni più severe al commercio di anni. Limitazioni che, però, è impossibile infilare in una legge. Perché c’è di mezzo il secondo emendamento? Il diritto costituzionale a portare armi c’entra poco. C’entrano i produttori di armi che comprano i politici all’ingrosso. Legalmente. Alla luce del sole. Soprattutto da quando la sentenza Citizen United consente donazioni illimitate per le campagne elettorali. Sì: ormai la democrazia è in offerta speciale. A farsi comprare sono soprattutto i politicanti di destra. Quelli che vorrebbero alzare muri per difendere i propri tremebondi cittadini. Tremebondi e con la mitragliatrice. Quelli così preoccupati per la sicurezza. Veri sepolcri imbiancati. Pronti a tutto per qualche voto in più. In particolare per quelli dei fanatici delle armi, che in certi stati sono comunque maggioranza e che ovunque sono pronti a votare compatti. Politicanti ipocriti come quelli dei nostri partiti dell’ordine. Ipocriti o mentecatti quando vorrebbero mettere una pistola nelle mani dei nonni per difendere i nipotini; quando vorrebbero fare “come in America”. Come in un paese che è esemplare. Che dimostra tutto quel che non si deve fare in tema di sicurezza. Che incarcera l’uno per cento dei propri cittadini, mentre nella sola Chicago avvengono più omicidi che in tutta Italia. Quasi il doppio, anzi. L’anno scorso a Chicago sono stati 650 (ma nel 2016 erano stati 771). Da noi sono stati 343. Il minimo da quando esistono le statistiche. Sei volte di meno che quelli che accadevano nell’Italia in cui sono cresciuto. Quindici volte meno, rispetto alla popolazione, che nella bianchissima e sicurissima Italia di quando c’era “lui”. Questi, però, sono solo numeri. Non dicono nulla a elettori bombardati da news che devono tener conto del business. Da titoloni e servizi speciali con il morto ammazzato. Perché la paura fa cassa. Perché i delitti procurano lettori e telespettatori. In questo sì, ormai siamo come l’America. Con il cervello lavato dagli stessi film e telefilm; dagli stessi giustizieri della notte e pistoleri che si fan giustizia da sé. Disinformati e spaventati. Pronti a votare il peggio sull’onda delle emozioni. Anche noi prossimi a una Caporetto della democrazia.

mercoledì 14 febbraio 2018

Le teste da razzista vanno anche in treno.

Sul Frecciarossa 9608 Termini – Centrale, in particolare, ce n’è una. C’è anche un nero. Il controllore arriva. Sembra che il nero non abbia il biglietto. Il controllore lo scorta fuori dal vagone. In due in qualche modo si parlano; si spiegano. Il controllore riaccompagna il nero nel vagone e lo invita ad accomodarsi, solo in un posto diverso da quello che occupava in precedenza. La testa di razzista vede tutto. Capisce a modo suo e s’indigna come riesce solo a quelli come lui. Il nero viaggia a sbafo protetto dall’ignavia del controllore: uno scandalo! La testa di razzista filma tutto e diffonde quelle immagini. Niente di male nel denunciare uno scroccone, intendiamoci. Certo, non si è seri se si dà del ladro a un onesto. In questo caso e andata proprio così: il nero aveva un regolare biglietto, solo si era seduto nel posto sbagliato. Non importa più di tanto, però. Quello che rende questo episodio meritevole di attenzione sono i commenti con cui la testa di razzista ha accompagnato il suo filmato. Testa da razzista che ha fatto di quel presunto scroccone il paradigma di tutti i “rifugiati”. Che ha esteso l’eventuale colpa di un singolo a un intero gruppo umano. Testa da razzista, insomma, che si è comportata come da manuale del perfetto razzista. Con conseguenze meno drammatiche, ma in modo simile allo sparatore di Macerata. Con lui hanno quanto meno mostrato tendenze razziste i 75 mila che si sono precipitati a condividere il suo filmato. Razzisti o quasi anche se lo negheranno. Anche se, non capendo neppure quale è il punto debole dei loro pseudo ragionamenti, elencheranno uno per uno tutti i crimini commessi dagli stranieri in Italia. Stranieri che sono l’otto per cento della popolazione e tra cui, inevitabilmente ci saranno anche dei criminali. Esattamente come tra loro ci sono delle vittime di criminali italiani. Un dato statistico, però, dovrebbe chiudere la bocca dei "difensori della razza". Trent’anni fa in Italia accadevano circa duemila omicidi ogni dodici mesi. L’anno scorso ci sono stati solo 343 delitti, per la maggior parte opera di parenti, amici e amanti. Insomma, se proprio si vuole tracciare una correlazione tra immigrazione e criminalità, piu immigrati ci sono e meno si ammazza. La mia è una provocazione? Sarà, ma se non altro ha qualche base. La spazzatura, che i sostenitori della politica della paura lasciano in ogni angolo della rete, di solito non ne ha nessuna.

martedì 13 febbraio 2018

Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.

Erano quel che più ammirava Immanuel il regiomontano. Una legge morale che dobbiamo ritrovare. Senza la quale anche la politica insegue l’utile e il conveniente, si piega al necessario, ma non è più il collante di una compagine sociale. Smette di mirare al bene e apre la porta al male. Al risorgere del fascismo. Parliamoci chiaro. Il regime è stato un disastro da tutti i punti di vista, anche quello economico. Solo in una cosa è stato ammirevole: la propaganda. Condotta con strumenti del tutto nuovi, la radio e il cinema, e senza opposizione, continua a farsi sentire. Durante il ventennio i salari reali sono costantemente diminuiti, eppure c’è chi pensa che sia stata una specie di età dell’oro. Non avebbe importanza, se le considerazioni di carattere morale non fossero diventate ormai secondarie. Nemico delle libertà democratiche. Caduto tanto in basso da fare della discriminazione razziale una legge dello Stato. Fautore di una politica estera di conquista e dominio. Anche senza considerare la complicità con il nazismo, tutto questo dovrebbe bastare per condannare il fascismo senza se e senza ma. Sempre e comunque. Semplicemente perché immorale; perché contrario, per sua stessa definizione, alla nostra idea di giustizia. Nostra perché kantianamente innata? Intendiamoci, sensibilità diverse pongono in punti diversi l’equilibrio tra equità e libertà. I vari partiti nascono per quello. Alcune idee di fondo, però, ci devono accumunare. Devono, se non vogliamo ridurci a una vaga associazione di egoismi. Le troviamo già in Confucio, e nei Vangeli. Nella massima “fai agli altri quel che vorresti fosse fatto a te stesso”. Le ritroviamo anche nei filosofi contemporanei; per esempio, nell’invito di Rawls ad immaginare una società senza sapere che posto andremo poi a occuparvi. Per ricordarle, però, non dobbiamo né scrutare il nostro animo né perderci tra mille volumi. Basta che torniamo a leggere la nostra Costituzione. Sono tutte lì; riunite in un documento che è al tempo stesso pietra di fondazione, cemento e progetto. Il disegno di un edificio sociale che ogni forza politica dovrebbe voler contribuire a costruire. E se non è così va isolata. Lasciata a se stessa. Come per decenni è stato fatto con il Movimento Sociale? Come dobbiamo tornare a fare con chi, millantando utilità, necessità e convenienza, vorrebbe precipitarci di nuovo nell’ingiustizia.

lunedì 12 febbraio 2018

“Ma il PD questo; ma il PD quello”.

Per anni è stato il vostro mantra. Siete stati dei complici. Sì, complici di una demenziale riscrittura della storia che ha fatto del PD il responsabile di tutti i mali del paese. Che ha fatto dimenticare agli italiani come e per colpa di chi si sono trovati nel pantano. Il disastro pentapartitico? I giovani neppure sanno cosa sia stato. Gli allucinanti governi berlusconiani che ci hanno portato a un passo dal baratro? Come se non fossero mai esistiti. Perché Renzi. Perché il PD. Sempre a picchiare da quella parte. Mai una critica al Bandana e alla sua banda. E comprensione, oh quanta comprensione, nei confronti di Salvini e dei suoi elettori. Gli ultimi. (Ma quando mai?) I dimenticati (come no: al governo nelle loro regioni da sempre). Quasi degli alleati naturali. Il risultato di tutto questo? Se i sondaggi che girano hanno un minimo di fondamento, voi state per consegnare l’Italia alle destre. Sissignore, voi. Convinti che Berlusconi fosse morto e sepolto. Che la Lega fosse destinata a restare confinata al Nord. Che bastasse erodere la base del PD per stravincere. Illusi. Siete arrivati a parlare in nome del popolo italiano. Delirando. Come se aveste già conquistato l’ottanta per cento dei consensi. Sempre criticando. Senza però mai prendere posizione in modo netto. Né di destra né di sinistra: oltre. Sì: nel territorio dei paraculi. Una tattica che ha funzionato, fino a quando avete dovuto fare delle scelte. La prima? Quella del vostro candidato. Dovevate essere rivoluzionari e ve ne siete usciti con Di Maio. Quel giorno vi ho invitato a segnarvi i risultati degli ultimi sondaggi. Non sareste mai andati oltre. Mai. La vera sinistra che accoglie a bracciaperte i militanti di Casapond e ha il volto di un andreottiano semi-alfabetizzato? Ma davvero pensavate funzionasse? Che gli italiani avrebbero scelto il nulla totale che gli stavate presentando? Berlusconiani e leghisti hanno preferito gli originali a una loro pallida copia e sono tornati all’ovile. I piddini dubbiosi, schifati, non si sono mai mossi. Siete rimasti col cerino in mano. Lo ha capito benissimo il Megafono. Furbo lui. Fiutata l’aria ha levato le tende. Tornerà poi, da salvatore della vostra patria. Dopo una sconfitta che, però, per voi può essere terminale. Su quale linea fermerete la vostra ritirata? Su quali valori vi arroccherete? Passata l’ondata di consensi, cosa vi indentificherà? Risposte che dovete darvi in fretta. Altrimenti? Evaporerete. Come il partito di Giannini (magari, se studiaste un po’ di storia ...). Scuotete le teste? Immagino già come mi risponderete quando vi ricorderò il vostro passato: “Grillini noi? Mai.”

domenica 11 febbraio 2018

Solo per cercare di farti capire.

ti racconterò di qualcosa ho visto una ventina di anni fa nell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso dell’India. Una regione come la Lombardia? Sì, ma con duecento milioni di abitanti. Poi tu fai il sovranista, neh ... Ma andiamo avanti. Anzi no. Siamo fermi, in colonna. Una colonna di camion coloratissimi, auto di ogni età, carri tirati da buoi e cammelli. Qua e là ci sono anche degli elefanti. La strada che va in città è sempre trafficata, ma stamattina dei lavori in corso la bloccano quasi del tutto. Tanto che dopo un po’ mi sveglio. Sì, perché non sono io a guidare. Impossibile, nel traffico indiano. Ho un autista. Si chiama Ash e, nonostante non voglia smettere di chiamarmi sir e di indossare l’uniforme, “ma cosa direbbero gli altri sir?” è mio amico. Quando apro gli occhi, dunque, nel rispetto dei ruoli sono sul sedile posteriore dell’Ambassador (una specie di Ford Granada fatta in loco; un’auto di lusso perché girano ancora frotte di Fiat 1100). Guardo l’orologio. E’ tardi e siamo ancora lontani da Lucknow (Mai sentita nominare? Una cittadina. Con tre milioni di abitanti). Mi stiracchio e guardo fuori. Proprio in quel momento stiamo superando il maledetto cantiere. Stanno facendo uno sbancamento senza usare macchinari. Degli uomini riempiono con un paio di badilate dei piccoli cesti che una fila di donne si carica sulla testa e va a svuotare a cinquanta metri di distanza. Quello spettacolo prima mi riempie di pena; come sono magre quelle donne. E devono lavorare a quel modo: coperte di stracci e a piedi nudi nel fango che gli arrivava alle caviglie. Poi, complice il ritardo che stiamo accumulando, m’irrito: accidenti, fino a pochi anni fa ho fatto il manovale e con una carriola, da solo, potrei fare il lavoro di una ventina di quelle disperate. Una considerazione di cui, con la mia solita insensibilità, rendo partecipe Ash. Lui non si scompone. “Ma quelle donne non hanno i soldi per comprare una carriola,” mi spiega, con il sorriso che usa quando vuole farmi sentire un deficiente. “E se una facesse il lavoro di venti, le altre cosa farebbero?” continua, sempre sorridendo, prima di finire con la frase con cui tronca le discussioni che lo mettono a disagio: “E poi si è sempre fatto così”. Non aveva capito niente? Sì: proprio come te! Dico: sei favorevole alla proposta di tassare i robot. Geniale. Esportiamo alla grande e tu vorresti cominciare una guerra dei dazi. Le nostre aziende, se proprio, avrebbero bisogno di più innovazione e tu te ne esci con questo. Ma allora leviamo le macchine per la raccolta del riso e torniamo ad avere le mondine: netta ripresa dell’occupazione femminile. Che cretinata! E se, invece, facessimo DAVVERO pagare le tasse sui profitti, comunque siano ottenuti? Sì, anche quelli da attività finanziarie (dove di robot non ne girano). Si scomoderebbe troppa gente, eh? Non sai cosa sia il lavoro, ma sei furbo. Qualche giorno in fabbrica, però, dovresti passarlo. Cerca una delle poche catene di montaggio che restano e osserva. Ti piacerebbe essere al posto di uno di quegli operai? Fare un lavoro così monotono? No: non vorresti esserci tu né che ci andassero i tuoi figli. Ecco: per loro dobbiamo, piuttosto, cercare di creare un’economia come quella dei paesi più sviluppati: dove le macchine svolgono mansioni ripetitive e gli uomini fanno cose più intelligenti. Dove ci sono lavori diversi dal tuo, insomma. Sì, perché se la Lega ti sostituisse con una macchinetta per sparare cavolate, a questo punto nessuno se ne accorgerebbe.

venerdì 9 febbraio 2018

Dibba ha quasi ragione.


No, non perché ha avuto un illustre (seffappeddì) predecessore. No, non perché nel paese dell’eterna geremiade, dove tutti si lamentano di tutti, ma nessuno ammette mai la minima responsabilità, è ovvio che anche i politicanti se la prendano con gli elettori. Ha ragione perché sembriamo scollegati dalla realtà. I nostri salari reali sono tra i più bassi (forse i più bassi) di quel che un tempo era l’Occidente. Il nostro stato sociale è pressoché inesistente, nonostante un erario tra i più voraci. Non riusciamo ad attrarre investimenti e questa è solo una delle conseguenze (altro che articolo 18) di una giustizia civile che è la più lenta del pianeta. Sì, di tutto il mondo, esclusi solo i paesi in via di dissoluzione come la Somalia. Bene, di questi argomenti non si parla. Pare che alla gente, anzi alla orrida ggente cui siamo stati ridotti, non interessino. In un campo, però, abbiamo fatto progressi. Quello della sicurezza. Il numero dei reati, in generale, è in costante diminuzione. Di quelli più gravi, in particolare. L’anno scorso ci sono stati 343 omicidi. Un sesto di quelli che accadevano a inizio anni ’90. Un quindicesimo o giù di lì, rispetto alla popolazione, di quelli che accadevano nella bianchissima Italia di quando c’era “lui”. Diminuiscono i delitti e, numeri alla mano, abbiamo ben pochi immigrati. Siamo in una situazione non diversa da quella spagnola; di un paese dove d’immigrazione quasi non si parla. Abbiamo, se per caso, il problema opposto: stiamo perdendo abitanti e dovremmo preoccuparci di trovare un modo di trattenere i nostri giovani che emigrano (e no; mandarli a raccogliere pomodori non è la soluzione). Di nuovo bene. Quasi che il copione della nostra campagna elettorale fosse stato scritto da uno Ionesco al massimo della forma, stiamo dibattendo solo di sicurezza e immigrazione. Comprensibile che così vogliano le nostre destre. Levate le solite promesse da trip acido - populista (quando Tim Leary incontra Salvini mentre Silvio/Evita canta “Don’t cry for me Cologno Monzese”), sono gli unici temi su cui hanno qualcosa da dire. Nessuna soluzione realistica da offrire, intendiamoci, ma perlomeno qualcosa da dire. È assurdo, però, che noi gli andiamo dietro. Non poche colpe le ha il nostro sistema informativo. E’ demenziale: capace di inventare emergenze a getto continuo. L’esatto contrario di quello dell’Italia in cui siamo cresciuti. Allora, con duemila morti ammazzati l’anno, le rapine, i sequestri, il terrorismo, le guerre di mafia, e interi quartieri anche delle città del Nord sottoposti a coprifuoco (avete presente la Comasina ai tempi di Epanimonda/Turatello? Di notte c’erano i posti di blocco, con tanto di controllo documenti. Sì: della mafia) si faceva di tutto per trasmettere l’immagine di un paese normale. Oggi ogni omicidio diventa un caso; finisce in prima pagine e ci resta a volte per settimane. Sì, Dibba ha quasi ragione. Non ci siamo del tutto rincoglioniti, ma ci stanno rincoglionendo.

P.S. L’anno scorso ci sono stati 353 omicidi, dicevamo. I bagnanti annegati sono stati almeno 400. Se davvero la sicurezza è un valore assoluto, perché nessuno ha ancora proposto la chiusura delle piscine e degli stabilimenti balneari? E’ emergenza. E’ tragedia. E’ catastrofe. Dovremmo vietare anche le docce.

mercoledì 7 febbraio 2018

Michelangelo Merisi da Caravaggio,

per gli amici Emme. Perlomeno per me, da quando ho letto la splendida biografia con quel titolo (in italiano, M. L’enigma Caravaggio, edita da Mondadori) opera di Peter Robb. Orgoglioso com’è del proprio lavoro, sarà contento di sapere che la sua mostra milanese ha avuto uno straordinario successo. Si è appena chiusa e, in quattro mesi, ha attirato a Palazzo Reale quasi mezzo milione di visitatori. Tutti ammirati. Tutti stupefatti davanti agli istanti catturati in quadri come il “Ragazzo morso di un ramarro”. Capolavori di un genio che segna un prima e un dopo; un vero punto di svolta nella storia dell’Arte. Amare Emme, però, è anche capire che non nasce dal nulla; che è figlio di una terra e di una tradizione. Di famiglia bergamasca, anche la sua pittura sembra arrivare dal confine tra Lombardia e Veneto. Il suo realismo, a Milano e dintorni, ha precedenti remoti: in nuce, è già nel maestro (forse costantinopolitano) che in età longobarda ha affrescato Santa Maria Foris Portas. La sua capacità di modellare con la luce, invece, sembra arrivare da Venezia: discendere da Giovanni Bellini; avere un debito con Antonello da Messina e il suo soggiorno in Laguna. E’ nuovissimo, Emme, eppure ha precursori anche molto più diretti. Un altro bergamasco, Giovan Battista Moroni, uno dei pittori che più amo, perlomeno nei suoi intensi ritratti sembra anticiparlo. Moroni che ha imparato il mestiere dal suo conterraneo Moretto; un altro che, date un’occhiata al suo “Cristo e l’angelo”, a volte sembra caravaggesco cinquant’anni o quasi prima di Caravaggio. Tutto questo senza sminuire la rivoluzione di Emme. Solo per ribadire come si possa rintracciare una genealogia della sua pittura; come si allunghino nel tempo i fili che ne intessono la poetica. Un discorso che farebbe sorridere un critico cinese. Il conoscitore di un’arte la cui storia sembra fluire da sempre senza cesure. I cui pittori pare dipingano sempre gli stessi alberi e montagne, padiglioni e laghetti. Soggetti che, però, valgono come note musicali, definite in modo immutabile, ma con cui si possono comporre sempre nuove melodie. Certo, per distinguerle serve orecchio. O meglio occhio. Al nostro, ignorante, è impossibile capire se un dipinto cinese abbia cinquanta o mille anni. Per gli intenditori, invece, è chiaro chi siano i maestri e chi i meri seguaci; quali opere siano capolavori e quali no. È d’obbligo citare Ortega y Gasset. L’arte astratta, scriveva, opera una divisione tra chi conosce e chi non sa nulla. In questo senso l’arte cinese è già perfettamente astratta. Moderna da millenni. Senza mutamenti? No, che gli artisti modulano secondo il proprio carattere e sensibilità, pur senza cercare l’innovazione fine a se stessa. D’altra parte, come ha scritto Borges, se la poesia fosse fatta di novità durerebbe lo spazio di un mattino. E tutto quel che è bello e vero, urna greca di Keats compresa, ha un passato alle spalle. Lo aveva anche un rivoluzionario come Emme, che con i sui pennelli ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Pretendono d’essere perfettamente nuovi solo i ciarlatani. Sono coscienti della propria storia, invece, tutti quelli che conoscono il proprio mestiere. Grandi artisti o modesti artigiani, tutti quelli che cercano di costruire il futuro.
P.S. Ho scritto di Emme usando il presente? Basta guardare certe inquadrature di film e le luci di certi clip musicali: è sempre con noi.
P.P.S. In questo periodo scrivo solo di politica? Verissimo. L’ho fatto anche qui sopra.


lunedì 5 febbraio 2018

Adesso la piantate.

Sì, adesso la piantate. Mentre proclamate la vostra onestà, peraltro mai messa alla prova, rinfacciate di tutto a tutti, Assurdo. E poi non è una condizione naturale, essere onesti? Bisogna ribadirlo? Non lo trovate ridicolo, un po’ come chi inizia una frase con “a dir la verità”? Lo senti e ti chiedi se per lui sia norma la menzogna. Voi, però, fate di peggio. Ci insultate. Implicitamente, ci date dei ladri o dei complici. Ma come vi permettete? Siamo persone per bene anche se non abbiamo la minima intenzione di votare per voi, bigotti. Sì, bigotti come il grande megafono. Eroe della resistenza, vero? Martire cacciato a suo tempo dalla Rai, ri - vero? E come era entrato in quella Rai super lottizzata? Spinto da chi? In quota a che partito? E voi, cosa votavate in quegli anni? L’area della sinistra vale sempre più o meno quello. Voi, un bel terzo d’Italia, arrivate anche da altrove. Oddio, oddio: la maggior parte di voi, se ha la mia età, deve per forza essere stata pentapartitica. E poi berlusconiana e leghista. E i vostri giovani? Tutti figli sfruttati del proletariato? No. Tra loro c’è di tutto. Ovvio. E tra i vostri candidati c’è di peggio. Nessuna intenzione di rovistare nella spazzatura; è un piacere che lascio a voi e ai marchitravagli che adorate. Semplicemente state imbarcando frotte di paraculi. Inevitabile per dei futuri vincitori? Ma il vostro mo’vi mento è fondato sul paraculismo. Siete pro e contro qualunque cosa. O prima contro e subito dopo pro (vedi la posizione sull’Euro) sempre e solo alla ricerca del massimo consenso. Perché vi rimettete alle decisioni della Rete? Panzane. Peggio ancora se fossero vere. Se tutto dipendesse da una volontà istantanea, senza memoria né progetti, contata chissà come e influenzata da chi strilla più forte. Così non si governa neppure un condominio. Rifacciamo la grondaia? Il martedì sì; il mercoledì no. Giovedì? Sentiamo che dice l’amministratore. Anziché blaterare di onestà, iniziate a mostrarne. Dichiarate perlomeno se guardate a destra o a sinistra. Siete oltre? Sì: provenienti dal vuoto cosmico. Perfetti, per un paese che sta sprofondando nel delirio. Ha mille problemi, ma è tra i più sicuri d’Europa e ha relativamente pochi immigrati. Di fatto, se proprio, sta perdendo abitanti. Bene: vi si dibatte solo di sicurezza e immigrazione. Gli unici temi su cui le destre abbiano qualcosa di dire. Nulla da proporre, si badi bene, nessuna soluzione realistica, ma perlomeno qualcosa da dire. Dopo Macerata, ripetono che se gli immigrati sono presi a pistolettate è colpa degli immigrati. Perché ... be’ perché esistono. Parla il vostro candidato, l'onestamente indicato Di Maio. (E tu, mio plurilaureato amico grillino, mi spieghi come mai, nel mo’vi mento dell’uno vale uno, alla fine è emerso proprio lui?) Che dice l’azzimato e impomatato? Questo: “Con l’immigrazione i partiti ci hanno guadagnato.” La solita affermazione qualunquista: destrorsa il giusto, perfettamente inutile ma buona per quasi tutti. Un bell’esempio del vostro modo di procedere. Di costruire il consenso. Il risultato? Governerete, probabilmente. Il giorno in cui prenderete la prima decisione avrete truffato la metà dei vostri elettori. Quelli che non vi avrebbero mai votato, se solo avessero saputo. Se solo aveste avuto l’onesta minima di dire, prima di tutto a voi stessi, chi siete e cosa volete.

domenica 4 febbraio 2018

Parla, avvoltoio, parla.

Accusa questo o quello. Sputa altro veleno. Da solo. Quello che è accaduto a Macerata non ha bisogno di commenti. E l’avvoltoio, la iena, quello che accorre a ogni disgrazia per guadagnare qualche voto speculando sui morti, sei tu. Resta lì a blaterare altre idiozie. Magari in compagnia del tuo candidato governatore della Lombardia; l’altro paladino difensore della razza. Bella razza. La vostra. Noi non abbiamo nulla a che vedere con voi. Non vogliamo averlo. Piuttosto, decidiamoci ad aprire gli occhi. Smettiamola di dividerci, di frantumarci, di lottare uno contro l’altro. Di comportarci come se tutto fosse come sempre. Non lo è. Una destra come quella che abbiamo di fronte, non c’è mai stata. Non così forte. Non così spudorata. Non così eversiva. Sì, mentre sventolano le svastiche e nelle nostre strade marciano inquadrati i neo-fascisti, la parola giusta per definirla è eversiva. Contraria ai valori su cui è fondata la nostra democrazia. Che insulta il tricolore repubblicano ogni volta che ne abusa. Una destra contro di cui dobbiamo fare fronte comune. A tutti i costi. Dimenticando differenze che potremo risolvere in tempi migliori. Abbiamo opinioni diverse sulla legge X o sulla riforma Y? Parliamone. Anzi, ne parlino i politici che dicono di rappresentarci. Arrivare a compromessi, raggiungere accordi, dovrebbe essere il loro mestiere. Sto invocando una futura grande coalizione? Non siamo la Germania della Merkel. Siamo l’Italia di oggi. Macerie fisiche a parte, non troppo diversa da quella del ’43. Divisa, anche se non dalla linea Gustav. Con milioni di cittadini da recuperare. Spaventati da decenni di disinformazione e propaganda. Timorosi di perdere chissà quali privilegi. Sconfitti in cerca di capri espiatori. Rancorosi. Frustrati. Pronti ad andare alle urne come a compiere un linciaggio; a demolire tutto senza avere idea di cosa fare poi. A saltare nell’abisso portandoci dietro tutti. Anche se sono solo una minoranza. Anche se noi potremmo benissimo fermarli, se solo ci fossero rimasti un po’ di cuore e di cervello. Quelli che avevano Degasperi, Togliatti, Parri e Nenni quando, assieme a tutti gli altri, fondarono il CLN.

venerdì 2 febbraio 2018

Il presidente degli industriali di Cuneo

invita i genitori a tenere in conto le esigenze delle aziende prima di far studiare i figli ...
Non si sta preparando a un futuro lavoro, quel ragazzo con la testa infilata tra le pagine di un poeta francese o di un filosofo tedesco. O forse sì, ma non gli importa. Non più di tanto. Sta resistendo. Sta salendo in montagna. A te sembra stia perdendo del tempo? Perché ti accontenti. Addirittura, ti ritieni soddisfatto. Un felice ingranaggio del grande tritacarne. Vittima quando è il tuo turno. Carnefice quando puoi. Con dentro tutta la rabbia dell’impotente. Quel ragazzo, invece, non si è ancora arreso. E’ disposto ad andarsene altrove. A cercarsi altri amici e a imparare una lingua nuova. Prima di lui, lo ha fatto il piccolo Giacomo. Quanto doveva opprimerlo la Recanati papalina in cui stava crescendo. Per fortuna c’era la biblioteca di suo padre, e lui si è rifugiato in quei libri. Ha imparato il latino e il greco. Ha trovato tra gli antichi qualcuno con cui parlare di quello che altrimenti, lì, in quella società, avrebbe solo potuto tacere. Una conversazione cui possiamo partecipare leggendo lo Zibaldone dei suoi pensieri. Pensieri che possiamo solo intuire, invece, quelli di Carlo Emilio. Introverso. Intrattabile. Chi ha conosciuto Gadda lo ricorda così. Anche lui fuori posto, nella Brianza / Maradagal della Cognizione del dolore. Anche lui rifugiatosi nei libri; dentro una lingua nuova. L’italiano. Esotico, per lui che era cresciuto con il dialetto nelle orecchie. Un italiano che ha amato visceralmente. Che ha esteso, stirato, esplorato in ogni angolo. Sempre malcontento. Sempre alla ricerca di qualcosa. Della parola romanesca da infilare ner Pasticciaccio. Della libertà che cercava anche Beppe. Il mio amato Beppe. Un bell’uomo, proprio un bell’uomo, mi ha detto una splendida e anziana signora che lo conosceva e che ho avuto la fortuna d’incontrare. Alto e con la sigaretta sempre in bocca, un po’ come lei, mi ha detto ancora, riempiendomi di uno stupido orgoglio e facendomi fare gli scongiuri. Nato nel 1922 e morto nel 1963, Giuseppe Fenoglio. Gli eroi muoiono giovani e lui è stato il mio eroe. Ancora oggi, se dovessi indicare il libro fondante di una possibile epica dell’Italia repubblicana, sceglierei Johnny. Il capolavoro del più improbabile dei partigiani. Un ragazzo con la testa tra le nuvole; persa nell’Inghilterra di Cromwell. Forse per questo l’ho preso a modello. Aveva lasciato nelle Langhe del ventennio solo il corpo, mentre il suo spirito parlava in inglese. Come per anni ha fatto anche il mio. Sei andato via, mi dicono i conoscenti. Certo, non spiego mai loro, ma non quando ho fatto la valigia. Molto prima. Un’estate, in cantiere. Grazie a un piccolo dizionario inglese regalato dall’Espresso. Cinquemila vocaboli che mi sono martellato in testa, con una pronuncia orrenda e ricordando a malapena la grammatica studiata alle medie. Tutto per non restare in quella Padania che ancora non si chiamava così, ma che era già tutta leghista anche senza la Lega. Perché sarà vero che, se stai male in un paese di diecimila abitanti, stai male con te stesso, ma io volevo anche altro. Andarmene a Big Sur e a passeggio per il Village e in giro per tutta San Francisco. Lontano come deve essere quel ragazzo, perso dentro quel libro. In un posto dove nessun benintenzionato e ragionevole sconfitto gli ricorderà mai quale sia il suo posto.