mercoledì 31 gennaio 2018

Bella ciao è di parte,

nonostante non sia certo una canzone comunista. I partigiani rossi avevano “fischia il vento” con tanto di primavera in tinta da conquistar. Bella ciao, invece, era cantata anche da quelli di Giustizia e Libertà e dai cattolici. Zaccagnini, non proprio un cosacco, la fischiettava spesso. Era cantata da tutti perché era nata per tutti. Ascoltatela. Non contiene riferimenti a partiti politici. Nasce da un canto di mondine, forse di fine Ottocento, che diceva: “Il capo in piedi col suo bastone e noi birbe a lavorar. O bella ciao ... ” Qualcuno ha preso quella musica e ne ha fatto un inno universale. Che vale per chiunque lotti per la libertà. Per questo è amata ovunque. Anche qui, alla fine del mondo. La canto a squarciagola con i mei figli ogni 25 aprile. (E alzo la bandiera in giardino, e organizzo una cena tricolore e canto pure l’Inno di Mameli. Se vi va bene, bene. Se lo trovate esagerato, controllate da che parte avete il cuore). Gli amici galiziani ci vengono dietro. Sanno solo ripetere Bella ciao, ma non ci lascerebbero mai soli a cantare la “cancion de los italianos” la sera della “fiesta de los italianos”. E non solo loro, come hanno scoperto un paio di nostri amici livornesi. Un paio di birre di troppo e hanno cominciato a cantarla nella piazza del paese. A mezz’agosto. Alle due di notte. Si sono trovati circondati da un paio di centinaia di persone che facevano loro il coro. La più bella serata della nostra vita, mi hanno detto poi. Scusate la parentesi. Solo per dire quanto sia contagiosa Bella Ciao. Contagiosa, universale, ma sempre e comunque di parte. Quei genitori romani secondo cui presenta “una visione unilaterale della storia”, almeno su questo ci hanno azzeccato. Ne avrete letto. Hanno chiesto che gli allievi di una scuola elementare (la Franchetti, nel quartiere San Saba) non la cantassero, come previsto, in occasione della Giornata della Memoria. A sbagliare, sono state le autorità che li hanno accontentati. La parte che cantava Bella ciao è quella che ha creato la Repubblica Italiana che, tra le altre cose, paga i loro stipendi. E’ la stessa parte che scritto la Costituzione i cui valori quella scuola dovrebbe impartire; che ha garantito i diritti entro il cui perimetro anche quei genitori possono esibire il loro neofascismo o la loro disinformazione. E’la parte, non importa con quanto impegno si voglia riscrivere la storia, che ha fatto del nostro paese una democrazia; con mille problemi, ma (per ora) una democrazia. E gli altri? Meritano pietà i ragazzini morti con la camicia nera. Alla fine, quelli erano i soldati del duce. Ragazzini. Salvo qualche gerarca troppo in vista per poterlo fare, i fascisti di sempre erano già nascosti, magari impegnati a preparare la bandiera da sventolare alla liberazione. Pietà per quei ragazzini, ma solo disprezzo per chi li ha mandati a farsi ammazzare. Per chi li aveva imbottiti di propaganda. Per il regime e per una repubblichina serva della Germania nazista. No, non ci sono equivalenze né par condicio da rispettare. Da una parte c’erano gli estensori delle leggi razziali e i complici dell’Olocausto. C’era il male. Il male assoluto. Dall’altra c’era chi era disposto a finire sotto a un fiore. Quello del "partigiano morto per la libertà".
P.S. Ho un figlio piccolo e un mutuo. Devo proprio restare da ‘ste parti. Quando me ne andrò, a ogni modo, non voglio cerimonie. Solo il cappello alpino sulla cassa e due canzoni: “Signore delle cime” e “Bella ciao”. E il resto sarà compagnia del vento.

martedì 30 gennaio 2018

Lo so, non hai mai lavorato e certe cose non le capisci.

E a scuola non dovevi essere un granché, specie in geografia. Altrimenti non ci avresti messo anni a comprendere che l’idea di dividere a pezzetti l’Italia era un’idiozia. Guarda una cartina. Vedi cosa ha di speciale? Taglia in due il Mediterraneo ma si allunga a Nord fino a sfiorare il cuore dell’Europa. I nostri antenati si sono scelti una delle posizioni più strategiche del pianeta. Potevano avere contatti diretti con tre continenti. Non alzavano muri: accoglievano mercanti e idee e, proprio per questo, l’Italia è stata per quasi tutta la sua storia il paese più prospero dell’Occidente. I secoli bui? Da noi faceva scuro. Nel resto d’Europa erano tenebre. In più, grazie a tutti quegli stimoli, grazie a tutte quelle influenze, quasi non abbiamo potuto evitare di fare cose belle. Da sempre. Almeno dai tempi degli Etruschi. Cose belle e città bellissime. Sono le nostre accademie e le frequentiamo dalla nascita. Per questo, nonostante quelli come te, continueremo a produrre bellezza. Non perché ce l’abbiamo nel DNA. Non perché siamo “sensibili”. Se un ragazzo italiano è interessato a linee e forme, però, anche in una piccola città di provincia può trovare un intero repertorio di curve e superfici; di ritmi e armonie. Cresce dentro il bello e quasi per natura il bello comincia a uscirgli dalla punta della matita. Secondo te, perché vendiamo tanto, in giro per il mondo? Il vecchio Lukacs diceva che la bellezza ha il potere di riscattare l’uomo dagli orrori della società di classe. Di certo la classista società globalizzata ha una fame di bellezza che noi siamo pronti a soddisfare. Perché sappiamo disegnare e, soprattutto, fare. Lo abbiamo imparato in millenni. Abbiamo mestiere. Tu non hai idea di cosa sia? Guarda questa statua: Apollo e Dafne. Forse Bernini l’ha concepita in un istante, folgorato da un’intuizione. Quello foglie tanto sottili, però, scolpite nel marmo, così duro e così fragile, sono appunto frutto del mestiere; di una forma mentis, di un modo di analizzare i problemi e semplificarne le soluzioni, che sta al cuore di qualsiasi tecnica. Se sai fare quelle, con qualche aggiustamento puoi fare qualunque cosa. Anche le macchine utensili di cui oggi siamo tra i massimi produttori mondiali. Torni e frese che, unite a tutte le altre cose belle che fabbrichiamo ci rendono un grande paese esportatore; il secondo della UE, subito dopo la Germania. Incredibile? Per te, di sicuro. Consideri l’Italia una nazione di serie B, che va protetta con dazi e barriere. (L’esatto contrario della realtà.) Pensi sia una specie di repubblica delle banane che può restare aggrappata al primo mondo solo grazie a giochetti di politica monetaria. (E poi? Paghiamo il petrolio con i soldi del Monopoli?) Parliamoci chiaro. Non l’amavi da giovane, altrimenti non saresti entrato nella Lega. Continui a non amarla ora, da segretario di quel partito. Perché non la conosci. Perché non la capisci. Perché sei senza arte né parte e non sai riconoscere quanto vale, anche in Euro, la bellezza.


lunedì 29 gennaio 2018

Giornata della memoria, ricordatevi di andare a pijarlo in c....

L’ha scritto sul suo profilo Facebook Cristina Bertuletti, sindaca leghista di Gazzada Schianno, comune di cinquemila abitanti (non proprio un buco) in provincia di Varese. Sindaca, eh. Organo locale dello Stato, con la fascia tricolore e tutto quanto. Rappresentante della Repubblica nata dalla Resistenza. Repubblica e Resistenza in maiuscolo, per me. Ciarpame da gettare, per lei, che approfitta delle libertà repubblicane, oltre che per farsi beffe dell'Olocausto, per inneggiare su quella sua pagina a dux lux. Frasi che non dovrebbero sorprenderci. Le radici naziste dell’immaginario leghista, tra riti celtici ed elmi con le corna, sono sempre state evidenti. Il motto nazista blut und erde, terra e sangue, avrebbe potuto già essere quello della Lega delle origini. Terra, sangue e ciclopica stupidita di elettori presi in giro da un branco di mattocchi di paese. Dall’Umberto e soci che si erano risolti la vita inventandosi il partito giusto, per quelle zone, nel momento giusto. Un’ottusità che, però, è diventata altro. Si è fatta sempre più volgare, spudorata e feroce. Tanto da farmi capire cosa intendesse Benedetto Croce quando parlava del fascismo come di un’invasione degli Hyksos; di una mutazione genetica, se volete, capace di rendere irriconoscibile una società. Sfigurata al punto da lasciarmi senza parole, nonostante usarle sia il mio mestiere. Mentre anche il futuro governatore della Lombardia (secondo i sondaggi) blatera di difesa della razza, riesco solo a rivolgere agli elettori leghisti un invito e una domanda. Guardatevi una buona volta allo specchio. Volete davvero essere quella ... quella roba lì?

Ragazzi, tornate a fare politica.

Siete il futuro. Per definizione. La vostra opinione, a riguardo, dovrebbe pesare più di qualunque altra. Mettetela sul piatto della bilancia; spostate gli equilibri dalla vostra parte. Soprattutto, sbrigatevi a produrre dei politici. Non ne abbiamo più. A destra? Ci sono solo ducetti con i loro bravi soldatini. A sinistra? Vedo tante menti brillanti. Brillantissime. Capi e capetti dalla battuta sempre pronta. Personalità forti; intransigenti (oddio ...). Gente disposta tutto per difendere i più alti valori e per due minuti sotto i riflettori. Non ce l’ho con loro. Se proprio, mi somigliano. Ancora di più se davvero credono in quello che fanno; se sono certi di seguire la strada giusta. Capita anche a me, quando scrivo o dipingo. Serve una combinazione di narcisismo, esibizionismo e presunzione per essere artisti. E loro potrebbero esserlo. Poeti, cantanti o attori. In politica, invece, combinano solo disastri. Dividono. Spaccano. Disintegrano. Avete presente Prodi? I veri politici sono come lui. Meglio ancora, come Merkel. Non importa cosa pensate del modo in cui ha governato. Avete visto come ha accolto chi l’ha chiamata “culona inchiavabile”? Dimostrando la calma della maestra d’asilo. Facendo finta di nulla. Anche quel decrepito guitto poteva essere utile alla causa europea e lei ha messo in secondo piano i propri sentimenti. Disgusto, pietà o quel che fossero. Be’, ragazze (sì, soprattutto le ragazze, con i cervelli non offuscati dal testosterone), sono sicuro che tra voi ci sarà qualcuna così. Equilibrata, seria senza essere pallosa, capace sempre di mediare; di unire. Non la più simpatica. Non necessariamente. Neppure la più intelligente. Quella capace di tirare fuori il meglio da tutti gli altri; quella che non comincia i litigi, ma li fa finire. Sbrigatevi a entrare in politica, vi dico, e fatela emergere. Ne abbiamo bisogno. Subito. Per ricostruire.
P.S. Se qualcuno legge in queste righe una critica a questo o quello si controlli la coda di paglia. Il panorama che offre la sinistra (tutta) è li da vedere. La slavina che sta scendendo da destra, pure.

venerdì 26 gennaio 2018

Svolazza l’avvoltoio della Padania,

con le ali obese di consensi. Svolazza, vede i morti di Pioltello e scende in picchiata. Si precipita e spara subito, senza attendere di sapere come e perché quel treno sia deragliato. Da vero pallista dell’Apocalisse. Spara contro i “tagli del PD.” Senza vergogna e senza memoria. Quasi non fosse a capo di un partito che ha guidato il paese accanto a Silvio B. per buona parte di un ventennio. Complice di un saccheggio dell’erario paragonabile solo a quello pentapartitico. Che si è rassegnato a mollare i cadreghini, nel novembre 2011, solo quando nelle casse dello Stato c’erano sì e no i soldi per arrivare alla fine del mese. Di che starsene zitti per secoli. Specie se si parla di ferrovie e, a suo tempo, si è deciso di destinare miliardi al buco nero della Tav in Val di Susa. Che visione strategica! Senza Fukushima staremmo pagando anche per la costruzione di nuove centrali nucleari. Tornando al 2011, però, chi diceva allora “il tricolore non mi rappresenta”? Certo, l’avvoltoio stesso medesimo, quando era indipendentista. Oggi, però, è cambiato. Si cresce. Si matura. Lui, poi, è un vero trottolino ideologico. Frequentatore giovanile del Leoncavallo e fondatore dei Comunisti Padani, adesso è comparuzzo di Marine Le Pen e se ne va a braccetto dei fascisti. Bello schifo. Anche per i fascisti dico. L’Italia, comunque, continua a non essere il suo paese. Non ne sa nulla. Neppure che è il secondo esportatore dell’UE. E già: prima c’è la Germania, ma subito dopo ci siamo noi. La globalizzazione? Per noi si sta rivelando una manna. Lo dimostra la nostra bilancia commerciale. Mentre il nostro mercato interno resta bloccato (ed è quello il Problema) esportiamo di tutto e dappertutto. Gli americani, poi, da soli ci lasciano nelle tasche ventiquattro miliardi l’anno. Di che rabbrividire alla sola idea che introducano dazi? Lui, invece, applaude The Donald. Di più: vorrebbe imitarlo. Siamo in super-attivo esportando generi voluttuari (si può vivere anche senza borsette della Bottega Veneta), importiamo più che altro petrolio (di cui al momento non possiamo fare a meno) e dovremmo avviare una guerra commerciale. Neanche fossimo impazziti. O non capissimo l’ABC dell’economia. Com’è certo il suo caso. In politica dall’infanzia, senza mai aver lavorato un solo giorno, è famoso solo come assenteista al parlamento Europeo. Non sa, ma parla. Straparla. Se andrà al governo, dice, se ne sbatterà del limite del tre per cento nel rapporto tra deficit e Pil. Intendiamoci, quella soglia non è sacra. Accordi a parte, potrebbe avere senso superarla per fare dei veri investimenti. Sarebbe criminale, invece, varcarla per comprare consenso; per sistemare gli amicuzzi in stile padano-federale. Discorsi teorici, a ogni modo. Perché? Dovremmo fare altri debiti e c’è una regola fondamentale a riguardo: si può avere in prestito solo quello che qualcuno è disposto a prestare. E là fuori non ci sarebbe certo la fila per comprare i titoli di Stato di un’Italia tornata a spendere e spandere. Non li voleva proprio nessuno, in quel maledetto 2011. Quando la crisi non c’era, diceva Silvio, i ristoranti erano pieni e, cavolata dopo cavolata, palla dopo palla, siamo arrivati a un passo dal fallimento.

giovedì 25 gennaio 2018

E naufragar m’è dolce in questo mare,

è uno dei versi più consolatori che conosca. Altro che “pessimismo leopardiano”. Che espressione infelice. O forse necessaria, per rendere il pensiero di Leo in qualche modo compatibile con i bigotti programmi del sempre bigotto ministero. Quella e l’insistenza sul suo aspetto. Tutto per fare di lui, un genio epocale, poco più che un estensore marchigiano della legge di Murphy. Le Marche papaline, quelle sì sono importanti. La soffocante Recanati di allora. Un posto da cui fuggire. E la biblioteca di suo padre. Monaldo (chi se lo dimentica ‘sto nome? E, infatti, è una delle poche cose di Leo che ricordano tutti) che doveva in qualche modo somigliarmi, capace come me di spendere in libri quasi tutto quel che aveva. Libri che sono il luogo in cui Leo si rifugia. Un altro paese in cui si parla la lingua della libertà; nel suo caso, il greco di Epicuro. Per lui il punto di partenza di un altro viaggio. Fino nel cuore della modernità. E’ il primo a compierlo, non solo nella nostra letteratura. Verso dopo verso, si scava dentro. Un secolo prima che Freud arrivi a dare un nome all’Io, lui affida alla poesia il proprio. Come poi faranno e continuano a fare legioni d’imitatori. Il suo punto di arrivo? La profondissima quiete che nel cuor si finge. E gli interminati spazi, e i sovrumani silenzi, oltre quella siepe. Oltre la ragione epicurea, in cui da moderno non può più trovare consolazione. Nella sua capacità di immaginare. Nell’essenza, se volete, della propria umanità. Senza rifiutare il reale. Accettandolo con tutte le sue implicazioni. Con titanico eroismo. Questioni che affronta anche nello Zibaldone, dandosi poche risposte e facendosi molte domande. Le stesse della filosofia dei secoli successivi. Nietzsche, certamente, ma anche Heidegger, Unamuno e Sartre, ne fossero coscienti o meno, lo avessero letto o no, hanno dialogato con lui. Gli stessi filosofi che mi hanno influenzato? Mi definisco esistenzialista, ma mi andrebbe bene anche essere chiamato umanista o leopardiano. Di certo vivrei allo stesso modo. Secondo un’etica che è, prima di tutto, un’etica del fare. Che cosa intendo dire? Che ho scritto queste righe pensando a certi miei/nostri amici, desolati e sconsolati, che soffrono, oh come soffrono, spaparanzati sui loro divani. Amici cui Leo direbbe: “Piantatela di frignare! Alzate le chiappe e datevi da fare!”

martedì 23 gennaio 2018

E’ tornato,


con le scarpe col rialzo, i capelli in acrilico misto lana e tutto quanto.
E’ tornato anche in Europa, accolto a braccia aperte dagli altri del PPE. Un segno dei tempi. Di tempi cupi. Tenebrosi. Con i fascisti nelle strade e dentro i governi. Gli stessi fascisti che lui ha sdoganato; di cui si è sempre servito. Una verità, ma storica. Del passato. E lui è tutto nuovo. Non per i miracoli della chirurgia plastica, ma grazie a un’inspiegabile amnesia collettiva. Lasciamo stare le condanne penali, le nipoti di Mubarak, i bunga bunga e tutta una serie di figuracce personali collezionate in giro per il pianeta. Pare che nessuno ricordi che ha governato per un ventennio. In alcuni periodi con un potere pressoché assoluto. Padre e padrone di forti maggioranze parlamentari, oltre che presidente del Consiglio e unto del Signore. Nel sopranominato ventennio non ha combinato una cippa. Ha solo rimesso a posto i conti delle sue aziende (che, infatti, appena ha smesso di governare ...). Per il resto, nulla. Zero riforme. Anzi; no, una ma tragica, firmata da una macchietta nominata ministra dell’Istruzione. Nessuna visione strategica. Non in campo economico. Non in una politica estera condotta oltre i confini del ridicolo. Il tutto unito a una gestione dell’erario pressoché criminale. Con lui, con i suoi governi, alla faccia del liberismo, la spesa pubblica è sempre e solo aumentata. Nei quattro anni tra il 2001 e il 2005, in particolare, di 47 miliardi, pari al 22% del bilancio di allora. Un’emorragia, per cosa? Per offrire servizi migliori ai cittadini? Ma quando mai. Per comprare consenso, in perfetto stile mussoliniano e pentapartitico. Per sistemare parenti, amici e amicuzzi. Per finanziare il federalismo alla padana. Per mantenere regioni, dalla Lombardia al Lazio, diventate a loro volta centri di una spesa fuori controllo. Tutto questo, mentre il debito pubblico continuava ad aumentare. Allegramente. Sconsideratamente. Fino al 2011. Come raccontare quel che è accaduto quell’anno? Una gita in torpedone. La corriera Italia che corre sull’asfalto bagnato della crisi. Alla guida, un autista ubriaco che punta a tutta velocità verso un muro. Un attimo prima dello schianto, spaventato, molla il volante. Troppo tardi, perché lo schianto c’è, eccome. Rischiamo di fallire. Arriviamo a un nulla dal finire come l’Argentina. Nessuno sembra ricordarsi della botta, però. Solo dei dolori che sono venuti dopo e che durano ancora. E lui, l’autista ubriaco, può di nuovo sorridere. Sembra addirittura orgoglioso: fin che ho guidato io, pare voglia dire, è andato tutto benissimo. Lui è libero di crederci, se lo fa stare meglio. Noi no. Se ci sfiorasse la balzana idea di riaffidare il paese a lui, a uno dei suoi, o ai suoi eterni compari/complici leghisti, dovremmo correre da uno specialista. Perché ci aiuti a recuperare la memoria o, almeno, ci faccia sopravvivere al nostro masochismo.

domenica 21 gennaio 2018

“Così ha condannato a morte la mia famiglia.”

Parla di un doganiere svizzero, Liliana Segre. Erano riusciti ad attraversare il confine e pensavano di aver raggiunto la salvezza, ma lui li aveva fatti tornare indietro. Applicando il regolamento, Rifiutandosi di chiudere un occhio, nonostante altri l’avessero fatto in quel periodo. Una persona per bene, forse. O che si vedeva come tale. Li aveva riconsegnati ai colleghi italiani perché la barca era piena. Perché non si potevano accogliere tutti. Perché cose vuoi mai che gli succeda, dall’altra parte. Perché se cercavano di varcare la frontiera di nascosto, in fondo dovevano essere dei criminali. Non si sarà detto “vanno aiutati a casa loro”, il funzionario elvetico; non si usava ancora. La codardia, a volte, s’inventa nuove maschere. Per lei è stato l’inizio dell’inferno. Prima in carcere. Poi ad Auschwitz. Lei che allora aveva tredici anni e oggi è un’anziana, nobile, signora. Nobile come le pietre di una cattedrale o il tiglio secolare che dà ombra a un’intera piazza. Come tutto quel che conserva la memoria e ne offre testimonianza. Lei lo fa senza praticare sconti. Non quando racconta dell’approvazione delle leggi razziali e di come lei, ebrea, fu cacciata da scuola. Nell’indifferenza di quasi tutti. Indifferenza che continuò quando cominciarono le deportazioni e che, dice, è il più terribile dei nemici; che non consente alcuna difesa ed è stato il nostro più grande peccato. Non fa sconti neppure a se stessa. Ad Auschwitz è sopravvissuta a tre selezioni e, racconta, ogni volta, quando le è stato fatto capire che poteva continuare a vivere, è stata travolta dalla gratitudine. Verso i propri aguzzini. Un sentimento che ricorda per dare una misura della propria dis-umanizzazione; della sua riduzione a mera entità biologica, per citare implicitamente Agamben. Un istinto, un anelito vitale, da cui si assolve, guardando ora, da nonna, alla ragazzina che era. Così giovane. Sola. Il padre già finito nelle camere a gas. In un mondo fatto di filo spinato, fame, botte e mucchi di cadaveri accanto ai forni crematori. Poco più di una bambina e costretta a fissare Medusa negli occhi, per usare un’immagine di Primo Levi. Senza però restarne impietrita. Trovando la forza di resistere anche alla marcia della morte nella primavera del ’45. Di sopravvivere e tornare a vivere. Di sposarsi e avere dei figli. E poi, con gli anni, dolorosamente, faticosamente, di raccontare. Appunto, di testimoniare. Come sicuramente farà anche da Senatrice a vita. I cattolici credono che intervenga lo Spirito Santo a guidare i cardinali durante il conclave. Non so chi lo abbia ispirato, ma, con lei, il presidente Mattarella ha scelto la persona giusta nel momento giusto. Mentre si tornano a vedere croci uncinate e saluti fascisti, qualcuno che ci ricordi quello che è stato prima che torni a essere. In forme nuove, certo. Con vittime diverse, forse. Con il cinismo, la crudeltà e il disprezzo di sempre. Esagero? Leggete i commenti alla notizia della nomina di Liliana Segre. Leggete, magari, quelli all’articolo che le dedica il Giornale. Astio. Addirittura odio. Un’altra mantenuta. Cosa vogliono ancora questi ebrei. Volgarità e ignoranza. Un’altra pidiota. E intanto noi paghiamo. Il solito, eterno, benaltrismo. Ma allora le vittime di Tito. Ma allora .... Di che chiederci se siamo davvero ridotti così. Se, come comunità nazionale, vogliamo tornare ad essere quello.

venerdì 19 gennaio 2018

L’Italia ha un’anima

e per questo è un grande paese. Enormemente più grande delle sue dimensioni fisiche. Un vero e proprio subcontinente. Solo l’India, con il suo miliardo e più di abitanti, due religioni e almeno una ventina di lingue principali, le è paragonabile. Sono entrambe penisole che una catena di montagne sigilla come provette. Terre benedette dal clima, ricche quasi per definizione, che hanno subito mille invasioni e attratto i popoli più diversi. Diversità, parola chiave. Le mille lingue locali dell’Italia. La mia è la prima generazione che parli davvero l’Italiano. I nostri padri spesso gli preferivano il dialetto. I nostri nonni non lo parlavano quasi mai. I nostri bisnonni, a volte neppure lo capivano. I mille volti degli italiani. Volti inaspettati. Siciliani che sembrano scandinavi e valligiani con gli occhi a mandorla. Il risultato d'infinite mescolanze, cominciate all’alba della storia. Inutile cercare di definire l’italianità in termini etnici o linguistici. E’ fatta d’altro. Di un certo modo di vivere. Di un certo modo di fare. Di uno spirito. Visito il museo archeologico di Copenaghen. Le torbiere restituiscono, perfettamente conservati, dei corpi dell’età del bronzo. Ci sono anche i loro vestiti. In una teca, un mantello. E’ decorato con disegni “optical” che sembrano arrivare dritti dagli anni sessanta o settanta. Disegni, linee, che nella loro armonia hanno qualcosa di ... be’, di Italiano. E’ di lino, leggo poi; di un lino finissimo, che faremmo fatica a tessere anche oggi, e che arriva, guarda caso, dall’Italia Settentrionale. Cosa mangerete stasera? Spaghetti pomodoro e basilico o pizzoccheri? Del baccalà alla palermitana o una bistecca alla milanese? Se è un piatto della nostra tradizione, di sicuro è fatto di pochi ingredienti, di una preparazione semplice e di un colpo di genio. E’ stato pensato all’italiana. Una banalità? Sto per scrivere che l’Italia è tenuta assieme dall’espresso? No. Voglio dire che esiste un carattere italiano: un certo modo di vedere il mondo e di rappresentarlo, di affrontare e risolvere i problemi, che è antichissimo, che non è davvero definibile, ma che credo sia sempre riconoscibile. Aristotele definiva l’anima come la forma del corpo; quello che lo identifica nonostante possa essere fatto dei materiali più disparati. Diversi come le infinite stratificazioni della nostra identità. Inutile descriverla tirando in ballo i concetti, peraltro sempre ridicoli, di razza e sangue. L’italianità è fatta di spirito, di “psiche”; appunto, di anima. Per questo dura da millenni e durerà millenni. E’ sopravvissuta alle dominazioni straniere e alle idiozie del fascismo. Sopravvivrà ai vaneggiamenti dei nazional-populisti da operetta e alla follia di questi giorni.

giovedì 18 gennaio 2018

Aritmetica per razzisti.

Dici di non essere razzista, come tutti i razzisti, ma parli di razza. Sei fiero, in particolare, del tuo purissimo sangue italico. Bravo. Per arrivare a te, però, ci sono voluti due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e sedici trisnonni. Risali di un’altra generazione e scopri di aver avuto sessantaquattro antenati; di un'altra ancora e questi sono stati 128, e poi 256, e poi 512, e poi 1024. Fin qui ci sei? In totale sei andato indietro di dieci generazioni; vale a dire di neppure 300 anni. Di raddoppio in raddoppio, scopri che dalla cupola del Brunelleschi, dall’altro ieri per un paese con una storia lunga come la nostra, in venti generazioni hai avuto 1.000.000 (sì, proprio un milione) di antenati. E se conti altre dieci generazioni, dai tempi di Matilde di Canossa, i tuoi potenziali antenati sono un miliardo. Tra loro, puoi essere quasi sicuro che ci fossero anche un arabo, un africano e un cinese, per non dire di un tedesco e di un francese, di un grande artista e di un navigatore, di una donnaccia e di un assassino. Mi hai capito? No? Be’, anche questo ha la sua logica: tra i discendenti di tutta quella gente non può mancare un fesso.

martedì 16 gennaio 2018

La nostra razza bianca.

Usa questa espressione Attilio Fontana, ex sindaco di Varese e candidato governatore leghista della Lombardia. Parla a cervello spento, davanti ai microfoni di una radio amica, e dice tutto del proprio movimento. Di un partito che non è più nulla. Sempre che sia stato qualcosa di diverso da un conato di bile. Avrebbe dovuto essere il volto onesto del settentrione. Appena nato si è accaparrato una scheggia della tangente Enimont, deve ancora spiegare che fine hanno fatto decine di milioni di contributi elettorali (altro che Roma ladrona) e per un ventennio ha governato proprio la Lombardia accanto a sua onestà Formigoni I. Era federalista. Addirittura indipendentista. Ora i suoi rappresentanti se ne vanno in giro avvolti ne tricolore (ma sarà sempre quello in cui si sono puliti il c...?) a braccetto con i fascisti. Per il resto, niente. Nessuna politica economica (siamo sempre alle sparate anti-euro). Nessuna idea. Solo la capacità di seminare paura e incanalare odio. Contro gli immigrati, in questi anni. Perché? Perché ci sono loro. Prima c’erano i meridionali. Domani, va a sapere chi. Contro chiunque valga come capro espiatorio. One trick pony, dicono gli americani. Cavallo da circo che sa fare uno solo numero. Ecco: questo è la Lega. Questo sono le nostre destre Sanno parlare solo di immigrazione, peraltro senza proporre soluzioni. Devono continuare a farlo anche se il paese sta, di fatto, perdendo abitanti. Anche se i centomila che arrivano ogni estate sono, appunto, centomila e non milioni. Devono comunque battere su quel chiodo il più forte possibile. Con toni sempre più esasperati. Come quelli di Silvio B. (quando il patetico torna in politica) con il suo mezzo milione di immigrati/delinquenti (e lui, si sa, di delinquenti se ne intende). Giocando anche la carta della razza, appunto, pur di far parlare di sé. E di Fontana ora si parla anche in America. Una consolazione, per il paese che ha eletto Trump, sapere che anche altrove circolino soggetti del genere. Personaggi che sembrano usciti dalle pagine più nere del ventennio. (A quando delle leggi speciali in difesa della “nostra razza bianca”?) Ignoranti che blaterano di “etnia’, come se questa fosse un dato biologico e non, se proprio, una costruzione culturale; una casa comune in perenne divenire. Nulla che Fontana possa capire anche se ha detto qualcosa di condivisibile. Levati di torno gli sproloqui, questo: “Dobbiamo decidere se la nostra (...) società deve continuare a esistere o essere cancellata.” Un rischio che corriamo davvero. Quello di smettere di essere una società aperta, che guarda al futuro, per rinchiuderci su noi stessi e precipitare in un nuovo Medioevo. Sì: abbiamo i barbari alle porte. Agitano gli stendardi tribali del sangue e della razza. Approfittando della follia dei tempi, finiranno per governare.
P.S. Fontana ha precisato che la battuta sulla razza è stata un lapsus. Come a dire, e non serve essere dei profondi conoscitori di Freud, che è quello che pensa davvero e di solito ha l'accortezza di tacere. Complimenti. Anche per l'arguzia (si fa per dire) della sua auto-difesa.

lunedì 15 gennaio 2018

Bombe pre-elettorarli.

Avevamo dato loro un nome. Erano una caratteristica del nostro paese. Un dato di fatto delle nostre vite. In tempo di elezioni, qualcuno, da qualche parte, avrebbe compiuto un attentanto per condizionare il voto. Lo sapevamo, ma non avevamo paura. E non mostravano paura le istituzioni. Saltavano per aria i treni e le stazioni eppure lo Stato ostentava fiducia. Lottava contro il terrorismo, ma usando le sole forze di polizia. Come se stesse affontando una forma di criminalità e non combattendo una guerra civile. Me lo dico osservando due bersaglieri. Impossibile non notarli. Siamo all’ingresso dell’aeroporto e loro mimetiche spiccano come bersagli tra i cappotti scuri dei passeggeri. Armi in pugno, vanno avanti e indietro, lentamente. Una scena della nuova normalità, in fondo. Parte del quotidiano anche in tante capitali europee. Militari armati tra i civili, come non accadeva neppure durante gli anni di piombo. Com’è caratteristica delle dittature, che usano le forze armate per mantenere l’ordine. Me lo dico, e mi sento preso in giro assieme a quei bersaglieri. Soldati per cui ho il massimo rispetto. Cittadini disposti a dare la vita per la Republica che non vorrei mai vedere sprecati a quel modo. Sì, sprecati. Con dei pesanti anfibi ai piedi, lo zainetto tattico e la maschera antigas al fianco, quasi non riescono a muoversi. Certo non con l’agilità che sarebbe necessaria in caso bisogno. E non potrebbero mai inseguire nessuno, a bordo del monumentale VM 90 che hanno a disposizione. Per il resto, qualunque cosa succeda, si spera solo che non commettano la follia di sparare. Imbracciano dei Beretta AR70/90. Dei fucili d’assalto. Difficile immaginare un’arma meno adatta a compiti di polizia. E più pericolosa, se usata in mezzo alla gente. Spara proiettili 5,56 x 45 mm Nato e ha una portata utile di cinquecento metri. (Ma la pallottola resta letale anche a distanza molto maggiore). In un luogo affollato, significa la certezza che ogni colpo mancato finisca per colpire qualcuno. Magari un poveraccio al capo opposto dell’aeroporto. Altro che sicurezza! Per giunta i terroristi sono fanatici, ma non cretini. Possono, e lo abbiamo visto, prendere di mira mercatini di Natale e fermate d’autobus anziché gli obiettivi che definiamo sensibili. Le linee Maginot sono inutili perché il nemico può attaccare da tutt’altra parte. Impiegati a quel modo, quasi come manichini, i soldati sono addirittura dannosi. Da un lato rassicurano, ma dall’altro inquietano. Ci fanno sentire in guerra; davvero impegnati in uno scontro di civiltà. Quello che i terroristi vorrebbero scatenare, per giustificare il proprio ruolo. Quello caro alla narrazione delle nostre peggiori destre. Ai partiti della paura. Agli antidemocratici che, in nome della sicurezza, puntano allo stato d’eccezione permanente. Forze che ormai sono dentro la nostra società. Che, come iene, torneranno a farsi sentire alla prossima strage, ma cui dobbiamo opporci con la forza della normalità. Facendo tornare in caserma quei due besaglieri. Perché anche loro e i loro fucili fanno campagna elettorale. E non necessariamente per il partito del ministro che li ha spediti a pattugliare quel terminal.

mercoledì 10 gennaio 2018

Sfilano le camicie nere per le vie di Roma.

Non marciano al passo, ma sono inquadrate come reparti militari. Sembra una foto del ventennio. E’ di un paio di giorni fa. Loro appartengono a CasaPound. Come ogni anno, commemorano i militanti di estrema destra uccisi il 7 gennaio 1978 in piazza Acca Larentia. Un lutto risalente a un periodo doloroso per tutti. Una memoria che nessuno può vietare sia onorata. A essere proibite, però, sono proprio manifestazioni come quella. La legge n.645 del 20 giugno 1952, per la precisione, dice che è un reato esaltare pubblicamente “esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo.” Un reato che si compie mentre quelle teste rasate continuano la loro parata in perfetto stile fascista senza che nessuno intervenga. Non la magistratura. Non le forze dell’ordine. Non il ministro degli Interni. Certo, viene da mandare a quel paese Minniti. Se ci fosse qualcun altro al suo posto, però, cambierebbe qualcosa? La figlia di Ezra Pound è in causa col movimento che, secondo lei, abusa del nome del padre. Il ministero dell’Interno ha fatto avere al Tribunale di Roma una nota informativa: un rapporto di polizia datato 11 aprile 2015 in cui CasaPound è descritta come un ente benefico per la tutela delle fasce deboli e dell’occupazione; addirittura come un’organizzazione ammirevole per “lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nel rispetto delle gerarchie interne.” Parole adatte a un volantino pubblicitario. Qualche riga dopo troviamo che CasaPound avrebbe l’obiettivo “di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio”. Come dire che, chiamata a occuparsi di un’associazione sospetta di apologia del fascismo, la polizia ha commesso, o quasi, il reato di apologia del fascismo. Neanche in una commedia di Ionesco. Del tutto naturale, però, quando si ha una storia tormentata come la nostra. Nel 1945 abbiamo dovuto scegliere: ricominciare da zero o salvare il salvabile? Abbiamo deciso di mettere una pietra tombale sul passato, forse perché di quel passato troppi erano stati complici. In sostanza nessuno, tra prefetti, magistrati o poliziotti fu costretto a cambiar mestiere perché era stato fascista. E interi settori dello stato sono rimasti fascisti. Dapprima anche negli uomini. Poi, comunque, in certi valori di fondo. E’ un dato di fatto. Un filo nero che attraversa i decenni che ci separano dalla caduta del regime. Reale come quei seimila neo-fascisti (secondo le loro valutazioni) che passano divisi per compagnie e battaglioni. Qualcosa che faremmo bene a ricordare anche in campagna elettorale. Mentre litighiamo tra noi per decidere chi è più democratico degli altri, rischiamo che la nostra democrazia diventi altro.

martedì 9 gennaio 2018

Se ne esce puntando sull’istruzione. Tutto lì.

Nessuna retorica. Nessuna frase fatta. Solo il riassunto di quel che so dell’Italia e di quel che ho imparato in una vita. Anche dalla mia amata Irlanda. Amata davvero. Al punto di volerne studiare la lingua (anche se con poco successo: in gaelico so dire quattro frasi in croce). Ci sono andato a ogni occasione per un ventennio. La prima volta nel 1985 quando lei era già bella, bella da strapparti il cuore, ma povera. Povera davvero. Più del nostro Meridione; come il Portogallo o l’interno della Grecia d’allora. Un paese cattolicissimo (comprare un preservativo, fuori dalle città, era un’impresa) ancora disseminato dalle rovine dei villaggi abbandonati durate la Grande Carestia e da cui si continuava a emigrare. Un paese che, però, non si era rassegnato. Dove la gente nei pub cantava e ballava. Soprattutto, dove tutti i giovani studiavano. In scuole e università spesso nuove di zecca, costruite usando i fondi comunitari. Il boom economico sarebbe cominciato con l’arrivo delle multinazionali attratte dagli sconti fiscali. Quelle società, però, non si sarebbero mai trasferite a Dublino se quelle scuole non avessero formato, prima, una forza lavoro pronta all’impiego. E senza quelle scuole, sarebbe poi mancata agli irlandesi la capacità di fondare le centinaia di piccole e medie aziende tecnologiche che rendono, oggi, il loro Pil pro capite quasi doppio del nostro. Di un’Italia dove, invece, tanti pensano che ci siano già troppi laureati. Anche se abbiamo una delle forze lavoro, meno preparate dell’Ocse (peggio di noi, solo la Turchia). Anche se quasi non facciamo ricerca e produciamo pochissima innovazione. Anche se valorizziamo solo in minima parte il nostro patrimonio culture. (In Italia non abbiamo solo le città d’arte: ogni nostra città e cittadina è zeppa d’arte). Tutte cose per cui servono ingegneri e scienziati, certo, ma anche storici, conservatori e laureati in tutte le discipline. (Mai pensato di organizzare corsi d’Italiano per stranieri? Non per gli immigrati: per i turisti che studiano la nostra lingua.) Abbiamo bisogno di laureati, ma ci mancano anche diplomati, mentre siamo in testa o quasi anche alle classifiche di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale. Dobbiamo pensare alle tasse universitarie, certo. (Non è giusto abolirle per tutti? Perlomeno che non le debbano pagare famiglie dove entrano due modesti stipendi: uno che se ne va per l’affitto e l’altro che deve bastare per tutto il resto). Dobbiamo fare qualcosa anche per i libri di testo per le superiori. E costruire più alloggi per gli studenti. E istituire vere borse di studio, come quelle di cui godono gli studenti meritevoli del resto d’Europa. Tutte cose che costano? Lungi da me voler mettere becco nelle discussioni tra le varie anime della nostra sinistra. E’ solo da quella parte, però, che mi aspetto il coraggio per scelte del genere. Quello necessario, magari scontentando qualcuno tra gli elettori di oggi, a trovare le risorse da destinare agli elettori di domani. Per dire ai nostri giovani che crediamo davvero in loro. Per segnalare al mondo che siamo tornati a guardare al futuro. Per deciderci finalmente a crescere, prima che come economia, come democrazia.

lunedì 8 gennaio 2018

Colpa dello stoicismo tardo-imperiale?

Pasolini, perlomeno, lo attribuiva a quello. Di sicuro, dentro la nostra società c’è una specie di buco nero. Una grande massa immobile e inamovibile, refrattaria a ogni cambiamento. Che si adatta ai mutamenti della storia, ma solo lentamente e sempre controvoglia. Siamo il paese dove nessuno è fesso, d’altra parte, a noi non la dà a bere nessuno e sappiamo benissimo che è meglio un uovo oggi della gallina domani. Questo cinismo, in qualche occasione ci è stato utile, intendiamoci. Forse dobbiamo ringraziarlo per non averci fatto bere fino in fondo il calice della propaganda fascista, per esempio. La fede immarcescibile nel führer era roba da tedeschi; noi, nel duce, ne abbiamo avuta solo fino a che non sono iniziate a cadere le bombe. Resta che alle nostre latitudini è inutile sognare rivoluzioni. Anche in senso lato. Anche tra mille virgolette. Per capirlo, basta esercitare la memoria. Tornare alle politiche del 1976. Anno mirabilis. Dopo un decennio di continua avanzata, sull’onda lunga di un movimento planetario, il PCI colse il suo miglior risultato. Pur con un segretario come Enrico Berlinguer (il carisma, per capirci, è quella roba che aveva lui ...) però, arrivò solo al 34%. E la sinistra nel suo complesso non superò il quaranta. Numeri ottenuti in condizioni eccezionali e che è meglio tenere a mente. Che tracciano l’unico corso d’azioni possibile ad una forza che voglia davvero essere riformista. Forza che può avere successo, certo a fatica, certo in modo lento e graduale, solo se riesce a elaborare un progetto che convinca anche una parte dei moderati; del restante sessanta (o settanta o ottanta o ...) per cento. Niente di nuovo sotto il sole? Prodi o no, il paese è sempre quello: non sarebbe l’Italia, altrimenti. Ovvio, ma, a quanto pare, non per quelli che preferiscono isolarsi in posizioni più o meno di “testimonianza”. Ammirevole, la loro coerenza; la loro intatta (certo che dare D’Alema dell’intatto ... ) fede negli ideali. Ammirevole se la politica fosse un esercizio retorico e non, come diceva quell’altro tedesco, l’arte del possibile. A meno che governare non sia tra le possibilità che a loro interessano.

sabato 6 gennaio 2018

Raccontatevela, ma non raccontatela a noi.

A noi che c’eravamo. Noi che abbiamo visto il pentapartito fare esplodere il debito pubblico. Magari proprio con il vostro contributo di baby pensionati, evasori col turbo o paraculati. O di comici in quota DC portati alla Rai da Pippo Baudo. Noi che abbiamo visto i governi berlusconiani e leghisti far esplodere di nuovo la spesa pubblica per finanziare il federalismo alla padana. Noi che abbiamo visto Berlusconi guidare il paese fino a un millimetro dall’abisso, prima di scappare lasciando il volante ad altri. Silvio Berlusconi che magari votate di nascosto (certe insane passioni, si sa ...). Leghisti che in fondo vi fanno tanta simpatia. Perché sono onesti. Nati con una scheggia della tangente Enimont e ladri di contributi elettorali ma onesti. E già. Ve la prendete solo con una parte. Con un partito. Il meno responsabile. Quello che potrà aver sbagliato (cosa, esattamente? E voi, in quelle condizioni, cosa avreste fatto?) ma ha cercato di portare il paese fuori dalle sabbie mobili. L’orrido PD. Orrido nella vostra narrazione. Colpevole di tutte le colpe. Untore di tutti i mali. Anche contro la storia. Nonostante ogni evidenza. In questi giorni siete andati oltre il ridicolo. Accusate Renzi di conflitto d’interessi per la vicenda dei sacchetti di plastica. Quando non si ha proprio nulla da dire. Niente di pratico da proporre. Renzi che conoscerebbe, in qualche modo, forse, un imprenditore di quel ramo. E con questa logica, mi chiedo cosa diavolo ci fa il Bandana in politica? E il megafono dalle mille amicizie, esattamente in che settori non avrebbe conflitti d’interesse? E il signor Casaleggio-Endemol? Ma della logica ve ne sbattete, si sa. Seminate disinformazione e odio. Odio come non se n’è mai visto. Forse neppure negli anni convulsi del dopoguerra. Palle clamorose ripetute per mesi. L’invasione dei rifugiati. “Ah, sono diminuiti? Come non detto.” Il paese in preda alla criminalità. In realtà si commettono sempre meno reati. “Sì, ma bisogna vedere.” Vedere che non capite una cippa. Né voi né i vostri capetti. Capaci di applaudire l’elezione di Trump. Tanto ignoranti da auspicare una guerra di dazi mentre l’Italia esporta come non mai; da non riuscire a proporre una politica economica anche solo lontanamente sensata. Ma a voi proporre non interessa. Siete quelli del “ma il PD”. Siete quelli del “ma Renzi”. Non ho mai amato Renzi. Potete cercare indietro. Ne ho detto peste e corna. Le mie però erano critiche politiche, puntuali. Voi lo demonizzate come non ho mai visto fare. Con uno stillicidio di attacchi personali, di si dice, di notizie francamente false. Lo demonizzate e state preparando la corda cui sarete impiccati. Continuate a raccontarvela, ma lasciate che vi dica una cosa. Con tutta la sfiducia che state diffondendo, governare sarà impossibile per chiunque. Anche per voi. E l’odio arriverà ovunque. Anche a voi.

giovedì 4 gennaio 2018

“Hai visto? Mi sono comprato un vestito italiano!”

Un sabato sera, circa un mese fa, il mio amico J., reduce dalla città in cui lavora durante la settimana, mi ha salutato così. Mi è bastata un’occhiata all’etichetta della giacca, fieramente esibitami, per scoppiare in una risata. L’abito, infatti, anche se di un taglio che poteva passare per italiano e di un impeccabile color antracite, era opera di Emidio Tucci. Non lo conoscete? Eppure veste metà del ceto medio spagnolo. Un nostro compatriota che ce l’ha fatta all’estero? Non proprio. Una firma finto-italiana del Corte Inglés, la più grande catena iberica di grandi magazzini. Firma, peraltro, in competizione con quello altrettanto finto-italica di Massimo Dutti, invenzione del gruppo Zara. Di che incavolarsi, pensando a questi affari fatti al traino della nostra moda? No. Pensateci bene. E nel frattempo, considerate che in Spagna vanno forte anche i negozi di alimentari della catena “la Tagliatella” mentre “Giuseppe Galli” è il nome di un’onnipresente catena di parrucchieri. Un fenomeno solo spagnolo? Ho trovato dappertutto tanto Made in Italy e almeno altrettanti prodotti che d’italiano avevano solo l’apparenza. A Budapest, qualche anno fa, erano di moda i jeans “Ciao Ragazzo”. (Fatti chissà dove da un’azienda austriaca). Tra gli anglosassoni, su entrambi i lati dell’oceano, il finto italiano è ovunque. In Russia? Pare si beva molto Barbera. Bianco. Made in Romania. In Giappone hanno un nome italiano tutte le utilitarie. In Corea, pure. Questo, cosa significa? Che veri o finti i prodotti italiani non sono mai stati così ricercati. Per la nostra cultura, per il Rinascimento, per i nostri film e per la nostra musica; per tutto questo e vai a sapere che altro, tantissimi, magari senza poterselo permettere, vorrebbero vestire, mangiare e guidare italiano. Vorrebbero essere, almeno un po’, come noi. Detto altrimenti, per noi la globalizzazione è una straordinaria opportunità. I cinesi? Sono già tra i migliori clienti di Ferrari e Maserati. E poi ci imitano, ci copiano, ma, anche loro, ci vogliono. Come tutti. Lo sanno le nostre aziende esportatrici, che macinano record. (Anche in settori, penso alle macchine utensili, dove italiano significa “teutonicamente” affidabile.) Non lo capisce la nostra peggior politica che si ciba di pessimismo. Più, in generale, non vogliamo capirlo noi. Ci piangiamo addosso, convinti di aver già raggiunto i limiti del nostro sviluppo. Abbiamo un intero pianeta da invadere con le nostre cose. Cui insegnare la nostra lingua (sempre più studiata anche negli Stati Uniti). Cui offrire l’opportunità di venire in vacanza da noi (pensate che al momento il Sud attira, tutto assieme, tanti turisti quanto il solo Trentino Alto-Adige). Molto stiamo già facendo, e la bilancia commerciale lo dimostra. Se le nostre aziende medio – piccole potessero contare su un reale sostegno, però, potremmo fare ancora di più. E se il ministero del Turismo si decidesse a giustificare la propria esistenza saremmo in pieno boom economico. Scuotete la testa? Dobbiamo convincerci di quanto vale, non per merito nostro, il marchio Italia di cui siamo titolari. Certo che, con la sfiducia che ci si è appiccicata addosso, se ci fosse capitata in sorte l’Arabia Saudita staremmo maledicendo il petrolio che sgorga quando scaviamo dei pozzi. E, come sempre, cercheremmo di tirare avanti comprando e vendendo cammelli.

mercoledì 3 gennaio 2018

Salari e contratti di lavoro,

dovrebbero essere l'oggetto unico, o quasi, della campagna elettorale. Mentre le nostre aziende esportatrici infilano un record dopo l’altro, è evidente che la palla al piede del nostro sviluppo è il mercato interno. Un mercato che può crescere solo se i consumatori si ritrovano nelle tasche qualche soldo in più. Che ripartirebbe, anzi, se solo gli italiani sapessero di poter contare su redditi crescenti. Non è un mistero, infatti, che gli acquisti, specie di beni durevoli, siano decisi più che altro in base alle aspettative. Liquidate come dimostrabili fesserie i discorsi sui “disastri dell’Euro”, spernacchiati gli immaginifici colpi di bacchetta magica valutaria proposti fino a ieri da leghisti e grillini (che ora, in cambio, non propongono proprio niente), si tratta di far sedere a un tavolo Confindustria e sindacati per stilare un piano per il recupero del potere d’acquisto degli stipendi. Un piano decennale, di aumenti salariali costanti e predeterminati (diciamo un tre per cento l’anno) per fare in modo che i lavoratori italiani tornino a essere pagati perlomeno decentemente; con stipendi non troppo lontani da quelli del resto dell’Occidente. Una misura doverosa per mille ragioni che sarebbe resa ancora più possibile se agli imprenditori, chiamati a mettere mano al portafoglio, fossero garantiti degli “sconti di sistema”. Se, con una serie di riforme (certo: ho in mente, prima di tutto, quella della Giustizia Civile) si assicurassero loro migliori condizioni di lavoro. Tra queste, non può mancare una flessibilità della manodopera che, però, non può tradursi nella prosecuzione dell’attuale politica contrattuale. E’ giusto che esistano forme di lavoro temporaneo. Queste, però, hanno costi sociali nettamente superiori al lavoro a tempo indeterminato e, di conseguenza, devono costare di più. Si tratta, esattamente come per i salari, di fare esercizio di logica. Il lavoro temporaneo dev’essere, per le aziende, una possibilità cui ricorrere in caso di effettiva necessita, non un’altra maniera di sottopagare i lavoratori. Dev’essere, detto altrimenti, una pratica possibile ma scoraggiata. Capirlo, vorrebbe dire anche restituire delle prospettive concrete ai nostri giovani; far tornare il paese a guardare verso il futuro. Un paese che, invece, resta con gli occhi fissi sull’ombelico delle proprie inquietudini. Si andrà a votare pensando solo a sicurezza e immigrazione. A due problemi che, numeri alla mano, sono secondari o inesistenti. Colpa di un sistema informativo perverso che, un titolone dopo l’altro, ha creato una sensazione d’emergenza. Colpa degli avvoltoi e delle iene che popolano la nostra destra. Brillanti solo per protervia, monumentali solo per ignoranza, non sono in grado di proporre nulla di concreto, ma sanno sfruttare benissimo le paure, per quanto irrazionali, dell’elettorato. A sinistra si è fin qui cercato di seguirli. Sembrava un’idiozia. I sondaggi lo confermano: non bastano certo i “successi” di Minniti a far cambiare idea a chi voleva votare Lega. E ora? Si può marciare gioiosi verso la sconfitta o provare a imporre i propri temi. Anche correndo il rischio di scontentare qualcuno, quei temi. In realtà, se si guarda all’Italia per quella che è, di così importanti non ve ne sono altri.