martedì 9 gennaio 2018

Se ne esce puntando sull’istruzione. Tutto lì.

Nessuna retorica. Nessuna frase fatta. Solo il riassunto di quel che so dell’Italia e di quel che ho imparato in una vita. Anche dalla mia amata Irlanda. Amata davvero. Al punto di volerne studiare la lingua (anche se con poco successo: in gaelico so dire quattro frasi in croce). Ci sono andato a ogni occasione per un ventennio. La prima volta nel 1985 quando lei era già bella, bella da strapparti il cuore, ma povera. Povera davvero. Più del nostro Meridione; come il Portogallo o l’interno della Grecia d’allora. Un paese cattolicissimo (comprare un preservativo, fuori dalle città, era un’impresa) ancora disseminato dalle rovine dei villaggi abbandonati durate la Grande Carestia e da cui si continuava a emigrare. Un paese che, però, non si era rassegnato. Dove la gente nei pub cantava e ballava. Soprattutto, dove tutti i giovani studiavano. In scuole e università spesso nuove di zecca, costruite usando i fondi comunitari. Il boom economico sarebbe cominciato con l’arrivo delle multinazionali attratte dagli sconti fiscali. Quelle società, però, non si sarebbero mai trasferite a Dublino se quelle scuole non avessero formato, prima, una forza lavoro pronta all’impiego. E senza quelle scuole, sarebbe poi mancata agli irlandesi la capacità di fondare le centinaia di piccole e medie aziende tecnologiche che rendono, oggi, il loro Pil pro capite quasi doppio del nostro. Di un’Italia dove, invece, tanti pensano che ci siano già troppi laureati. Anche se abbiamo una delle forze lavoro, meno preparate dell’Ocse (peggio di noi, solo la Turchia). Anche se quasi non facciamo ricerca e produciamo pochissima innovazione. Anche se valorizziamo solo in minima parte il nostro patrimonio culture. (In Italia non abbiamo solo le città d’arte: ogni nostra città e cittadina è zeppa d’arte). Tutte cose per cui servono ingegneri e scienziati, certo, ma anche storici, conservatori e laureati in tutte le discipline. (Mai pensato di organizzare corsi d’Italiano per stranieri? Non per gli immigrati: per i turisti che studiano la nostra lingua.) Abbiamo bisogno di laureati, ma ci mancano anche diplomati, mentre siamo in testa o quasi anche alle classifiche di abbandono scolastico e di analfabetismo funzionale. Dobbiamo pensare alle tasse universitarie, certo. (Non è giusto abolirle per tutti? Perlomeno che non le debbano pagare famiglie dove entrano due modesti stipendi: uno che se ne va per l’affitto e l’altro che deve bastare per tutto il resto). Dobbiamo fare qualcosa anche per i libri di testo per le superiori. E costruire più alloggi per gli studenti. E istituire vere borse di studio, come quelle di cui godono gli studenti meritevoli del resto d’Europa. Tutte cose che costano? Lungi da me voler mettere becco nelle discussioni tra le varie anime della nostra sinistra. E’ solo da quella parte, però, che mi aspetto il coraggio per scelte del genere. Quello necessario, magari scontentando qualcuno tra gli elettori di oggi, a trovare le risorse da destinare agli elettori di domani. Per dire ai nostri giovani che crediamo davvero in loro. Per segnalare al mondo che siamo tornati a guardare al futuro. Per deciderci finalmente a crescere, prima che come economia, come democrazia.

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