giovedì 4 gennaio 2018

“Hai visto? Mi sono comprato un vestito italiano!”

Un sabato sera, circa un mese fa, il mio amico J., reduce dalla città in cui lavora durante la settimana, mi ha salutato così. Mi è bastata un’occhiata all’etichetta della giacca, fieramente esibitami, per scoppiare in una risata. L’abito, infatti, anche se di un taglio che poteva passare per italiano e di un impeccabile color antracite, era opera di Emidio Tucci. Non lo conoscete? Eppure veste metà del ceto medio spagnolo. Un nostro compatriota che ce l’ha fatta all’estero? Non proprio. Una firma finto-italiana del Corte Inglés, la più grande catena iberica di grandi magazzini. Firma, peraltro, in competizione con quello altrettanto finto-italica di Massimo Dutti, invenzione del gruppo Zara. Di che incavolarsi, pensando a questi affari fatti al traino della nostra moda? No. Pensateci bene. E nel frattempo, considerate che in Spagna vanno forte anche i negozi di alimentari della catena “la Tagliatella” mentre “Giuseppe Galli” è il nome di un’onnipresente catena di parrucchieri. Un fenomeno solo spagnolo? Ho trovato dappertutto tanto Made in Italy e almeno altrettanti prodotti che d’italiano avevano solo l’apparenza. A Budapest, qualche anno fa, erano di moda i jeans “Ciao Ragazzo”. (Fatti chissà dove da un’azienda austriaca). Tra gli anglosassoni, su entrambi i lati dell’oceano, il finto italiano è ovunque. In Russia? Pare si beva molto Barbera. Bianco. Made in Romania. In Giappone hanno un nome italiano tutte le utilitarie. In Corea, pure. Questo, cosa significa? Che veri o finti i prodotti italiani non sono mai stati così ricercati. Per la nostra cultura, per il Rinascimento, per i nostri film e per la nostra musica; per tutto questo e vai a sapere che altro, tantissimi, magari senza poterselo permettere, vorrebbero vestire, mangiare e guidare italiano. Vorrebbero essere, almeno un po’, come noi. Detto altrimenti, per noi la globalizzazione è una straordinaria opportunità. I cinesi? Sono già tra i migliori clienti di Ferrari e Maserati. E poi ci imitano, ci copiano, ma, anche loro, ci vogliono. Come tutti. Lo sanno le nostre aziende esportatrici, che macinano record. (Anche in settori, penso alle macchine utensili, dove italiano significa “teutonicamente” affidabile.) Non lo capisce la nostra peggior politica che si ciba di pessimismo. Più, in generale, non vogliamo capirlo noi. Ci piangiamo addosso, convinti di aver già raggiunto i limiti del nostro sviluppo. Abbiamo un intero pianeta da invadere con le nostre cose. Cui insegnare la nostra lingua (sempre più studiata anche negli Stati Uniti). Cui offrire l’opportunità di venire in vacanza da noi (pensate che al momento il Sud attira, tutto assieme, tanti turisti quanto il solo Trentino Alto-Adige). Molto stiamo già facendo, e la bilancia commerciale lo dimostra. Se le nostre aziende medio – piccole potessero contare su un reale sostegno, però, potremmo fare ancora di più. E se il ministero del Turismo si decidesse a giustificare la propria esistenza saremmo in pieno boom economico. Scuotete la testa? Dobbiamo convincerci di quanto vale, non per merito nostro, il marchio Italia di cui siamo titolari. Certo che, con la sfiducia che ci si è appiccicata addosso, se ci fosse capitata in sorte l’Arabia Saudita staremmo maledicendo il petrolio che sgorga quando scaviamo dei pozzi. E, come sempre, cercheremmo di tirare avanti comprando e vendendo cammelli.

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