lunedì 30 aprile 2018

Buon Primo Maggio.

A chi lavora, ha lavorato e lavorerà. In una Repubblica fondata sul lavoro, ma dove i lavoratori sono sempre stati solo portatori di voti e consensi. Divisi per categorie. A questo o quel partito. Sempre in fabbrica, in ufficio o nei campi. Lontanissimi dal potere ieri, oggi e domani. Cosa accomuna i due nuovi dioscuri della politica nazionale? Non hanno mai lavorato un giorno o quasi. Come i peggiori politicanti della Prima Repubblica. Campioni di retorica come loro. Come loro immaginifici spacciatori di pseudo-soluzioni, con pochissimo senso della realtà e ancor minor rispetto del bilancio. Capaci solo di proporre altri debiti. Il risultato delle distribuzioni di pane alla plebe e degli sconti fiscali a chi, comunque, di tasse ne ha sempre pagate poche. Il tutto nella convinzione che all’Italia non rimanga che gestire la propria decadenza. Un paese che invece resta a galla. Nonostante tutto. Solo grazie a chi lavora. Tra loro, chi produce le cose belle che esportiamo in tutto il mondo. Aziende floride in un’economia che è al collasso proprio perché ci si è dimenticati dei lavoratori. Dei loro salari. E nessuna forza politica, neppure quelle nuovissime, dice qualcosa a riguardo. Basterebbe un piano decennale o ventennale per il graduale recupero del potere d’acquisto degli stipendi. Nulla di rivoluzionario. Un provvedimento concordato con gli imprenditori che farebbe ripartire il mercato interno e potrebbe innescare un nuovo boom economico. Poi servirebbe il coraggio necessario a proclamare due verità. La prima è che lo sfruttamento dei lavoratori è un reato grave quanto un rapimento o a una rapina. Dal 2016 una legge prevede il carcere almeno per i caporali dell’agricoltura. Dovrebbe finire in galera chiunque paghi i dipendenti meno del dovuto o li costringa a lavorare in nero. Dipendenti, e questa è la seconda verità, che comportano superiori costi sociali se assunti a termine. Ne consegue che se il lavoro temporaneo deve esistere, in alcuni specifici settori è una necessità, deve costare di più, nettamente di più, di quello a tempo indeterminato. Una legislazione che ne prendesse atto, spazzerebbe via i tanti furbetti che, specie nel nostro arretratissimo terziario, condannano i propri dipendenti a un eterno precariato. Sarebbe un altro modo di restituire dignità al lavoro. Un passo decisivo per uscire da questa crisi infinita. Iniziata addirittura nel 1985 (guardate i dati sulla produttività, se avete dei dubbi), con l’abolizione della scala mobile. L’inizio di un circolo vizioso, salari sempre più leggeri, mercato interno sempre più ristretto, che ancora ci sta soffocando. Che spezzeremo definitivamente quando capiremo fino in fondo il significato, anche economico, di quel primo articolo della nostra Costituzione. Quando il Primo Maggio, detto altrimenti, tonerà ad essere qualcosa più dell’occasione per un gran concerto e per scambiarci degli auguri.

domenica 29 aprile 2018

La scandalosa bavarese della libertà.

Ve la faccio breve. La storia. E anche la bavarese. Anche questo Venticinque Aprile, come ogni anno, a casa mia si è cenato tricolore. Ospiti i miei vicini, una coppia di amici e un branco di giovinastri. Amici di mio figlio ma invitati da me, convinto che al massimo ne venisse un paio. Solo che non sapevo della Casa de Papel. Dai, ha insistito con loro mio figlio, che si canta Bella Ciao. E loro sono arrivati tutti. E di corsa. Perché Bella Ciao va fortissimo da queste parti, appunto per via della Casa de Papel: un telefilm che la usa come colonna sonora in certi momenti topici. Questa sarebbe la storia. Passiamo alla bavarese. Sapendo che avrei avuto tanti ospiti ne ho fatte due. Bavaresi di fragole, ovvio. Con la panna e le foglioline di menta come guarnizione. I colori, appunto, della nostra bandiera. Senza troppa fantasia e senza troppa abilità. Seguendo la ricetta che potete trovare in qualunque angolo della rete. Si puliscono bene le fragole. Nel frattempo si ammolla la colla di pesce e si monta, non troppo ferma, la panna. Si scottano le fragole per quattro minuti in acqua bollente, si frullano, si lasciano raffreddare quindi, unico punto critico, si uniscono alla panna e alla colla di pesce, opportunamente filtrata per evitare grumi. Movimenti calcolati eh, usando una frusta, dall’alto verso il basso. Fatto questo, si deve solo versare il composto in uno stampo e mettere in frigo perché si rapprenda. Uno stampo da bavarese che avrei. Uno. Ma di bavaresi volevo farne due. Ci penso. Ci ripenso. Trovo la soluzione. Avete presente quelle ciotole tuttofare di metallo che vende Ikea? Quelle semisferiche? Ecco: ne ho usate due. Hanno funzionato. Le ho bagnate per bene prima di versarci le fragole. Le ho immerse per qualche istante in acqua calda quando, qualche ora dopo, le ho tirate fuori dal frigo, e le due cupole bavare e fragolose sono uscite benissimo. Anche la consistenza. Non proprio solida. Qualcosa più che gelatinosa. Morbida. Tremolante. Si può dire trepidante? Insomma: come doveva essere. Ho piazzato ogni bavarese in centro a un piatto rotondo, mi sono sbizzarrito con le foglioline di menta e della panna spray (non arricciate il naso; non avevo tempo di sacapochare e quantaltro) e ho finito di decorarle con delle mezze fragole. Una fragola sola, intera, invece l’ho messa proprio in cima a ogni bavarese. Ho controllato. Mi sono detto bravo. Sembravano di quelle che si comprano. Le bavaresi, dico. Sembravano a me, dico. Chiamo la figliolanza e gliele faccio portare in tavola, mentre io mi occupo della salsina che doveva accompagnarle (fragole, zucchero velo e succo di limone frullati assieme: vi ho detto che tra gli ingredienti non c’era la fantasia). Scendo con una salsiera in ogni mano e li trovo tutti che stanno ridendo. Bello, mi dico, questo sì che è spirito partigiano e resistente. Ridono e guardano le due bavaresi che i miei figli hanno messo una accanto all’altra in mezzo alla lunga tavolata. Rido anche io, sempre con le salsiere in mano, ma non capisco. Mi spiega E., ingegnere forestale, con la sua schiettezza di tecnico e di uomo dei boschi: “Carajo, Daniel, parecen dos tetas.” 
Non serve che vi traduca.

P.S. Scandalose o no, le bavaresi se le sono mangiate tutte, mentre gli amici di mio figlio hanno scoperto che gli italiani cantato per davvero Bella Ciao .A squarciagola.

mercoledì 25 aprile 2018

Francisco Goya, Tre maggio 1808.

In un'immagine, le vittime e i carnefici di ogni regime. Un capolavoro che vi ripropongo in occasione del Venticinque Aprile.



Francisco Goya, 3 maggio 1808.
Olio su tela di 268 x 347 cm. Museo del Prado, Madrid.
Come si chiamava? José? Pablo? Non si sa, e non importa, anche se tutti ci ricordiamo di lui. Anzi, del bianco della sua camicia. Qualche pennellata di semplice biacca, eppure uno dei colori più memorabili della storia dell’Arte. E dei più inevitabili: che non potremmo mai immaginare, in questo quadro, sostituito da un altro. Una camicia che è il centro visivo del dipinto. Spicca sui toni scuri del resto dell’opera e i nostri occhi, attratti dalla luce, corrono da lei, prima di esplorare quel che le sta attorno. Accade quando osserviamo una riproduzione, come è certo capitato a tutti, tanto è celebre questo quadro. Accade quando, durante una visita al Prado, ci troviamo di fronte all’originale.

martedì 24 aprile 2018

Numeri, per i pochi che conservano l'uso della ragione.

Nel 2017 l'Italia ha finito per garantire l'asilo a 35.130 profughi. L'orrida Austria, crudele e senza cuore, e con un settimo dei nostri abitanti, ne ha accolti altrettanti (33.195). La Germania della feroce cancelliera? La Germania che ci ha lasciato soli e che bada sempre e solo ai propri interessi? Ne ha accolti più di trecentomila; dieci volte noi. Ma si tratta solo di numeri, appunto. Nella follia di questi tempi, importa altro. Conta la percezione. La somma di disinformazione e pregiudizi. Lo dimostrano i polacchi. Pronti a scendere in piazza per difendere la cattolicissima patria invasa dagli islamici. Hanno dato ospitalità a 560 rifugiati. No, non 560.000; proprio 560. Per la metà russi. Per un altro quarto ucraini. E i musulmani? Se ne stanno assieme ai milioni di africani sbarcati lungo le nostre coste durate il governo Gentiloni (nell'ultimo anno, a dire la verità, ci sono stati quasi 100.000 arrivi in meno; ma sono solo dettagli ...) Da qualche parte nel regno della fantasia. Non quello delle fiabe, però. Quello degli incubi caro ai nazional-populisti; ai leghisti di ogni tipo che, se ne rendano conto o no, per mera sete di potere o perché al servizio di altri, stanno distruggendo l'Europa.

lunedì 23 aprile 2018

Le scie chimiche esistono, eccome.

Me lo dice B. che ha studiato, lavora in città e mi presentano amici comuni. 
Basta guardare in cielo, continua: ogni tanto degli aerei si lasciano dietro proprio quelle scie. Di condensazione? Sì, se uno è tanto ingenuo da fidarsi della scienza ufficiale. Comincia così e va avanti per un quarto d'ora. Una cospirazione della Cia, del gruppo Bildemberg e della famiglia Rothschild. Proprio come il comunismo. Si tratta di prodotti chimici. Di sostanze che influiscono sulla psiche. Che trasformano gli uomini in pecore. Che li rendono docili. Soprattutto che ne fanno degli stupidi, pronti a credere a qualunque cavolata.
Bevo la mia birra e taccio. Non lo contraddico; non gli do corda. Spero solo mi lasci in pace.

Quando mi spiega che anche i vaccini sono frutto di quella cospirazione, però, mi convince.
Sì, concordo, di questi tempi c’è davvero in giro qualcosa che rimminchionisce la gente.

sabato 21 aprile 2018

Potreste essere miei figli.

Lo scrivo e me ne pento. Una frase che avrete già sentito, ma che potrete capire solo quando sarete voi ad essere padri. Credetemi, però, se vi dico che mi ha fatto male vedervi in quei filmati. Guardarvi trattare a quel modo un vostro insegnante. Male per lui, umiliato e deriso mentre cerca di fare il proprio lavoro. Male soprattutto per voi, così giovani e già condannati. Destinati "a confinata sorte"; a una vita dagli orizzonti chiusi o peggio. Condannati dalla società, dalle vostre famiglie e da un intero sistema educativo, mass media compresi. Da chi ha fatto di voi delle caricature di delinquenti. Dalla libertà che affettate; dalla stupidità che dimostrate. Quella del prigioniero che disprezza chi potrebbe aprirgli la cella. Chi potrebbe salvargli la vita. Non ho nulla per essere un modello. Ho tre figli e un muto, dico sempre, prima di allargare le braccia. Per il resto potrei parlare solo di quello che mi manca. Sono quasi felice, però. E a volte felice senza il quasi. Di una vita che mi sono scelto. Che sento mia. Che ho vissuto appieno anche grazie a un paio d'insegnanti. Senza di loro avrei accettato quel che per me avevano già scritto altri. Mi sarei accontentato. E probabilmente ora avrei un'ulcera o dovrei ricorrere a qualche psicofarmaco. Insegnanti salva-vita, chiamo quelli come loro. Non sono tanti, ma ce ne sono in ogni scuola. Come si riconoscono? Non certo dall'aspetto. Il primo che abbia visto in me uno scrittore, che mi abbia detto “tu devi scrivere”, è stato il mio prof d'Italiano alle Medie. L.R. Non sono sicuro che voglia si sappia il suo nome. Un ragazzo del sessantotto, con l'eskimo innocente, un rottame di Due Cavalli, grandi ideali e nient'altro. Nessun evidente carisma. Nessun atteggiamento da “attimo fuggente”. Dei capelli lunghi che se ne andavano da tutte le parti e una corporatura esile, tutta pelle e ossa. Un insegnante, però, che mi ha convinto di avere del talento. Soprattutto che mi ha fatto capire che avrei potuto essere anche quello che neppure sognavo di poter essere. Con qualche parola giusta. Suggerendomi i libri giusti. Il primo? Non lo ricordo. L'ultimo, ce l'ho ancora. “La rivoluzione industriale e l'impero” di Eric J. Hobsbawm, tanto perché capissi come storia ed economia andassero a braccetto. Un professore che mi ha aperto una finestra che altrimenti, con una famiglia come la mia, avrei sempre lasciato chiusa. Famiglia che, però, mi aveva perlomeno insegnato a rispettare chi stava cercando di insegnarmi qualcosa. Il minimo assoluto dell'educazione. Quello che a voi manca. Voi che siete troppi per essere liquidati come casi isolati. Voi che, pur considerata la vostra gioventù, avete delle precise responsabilità. Noi adulti che a questo punto dobbiamo fermarci un momento,lasciar perdere i telefonini, spegnere televisori e computer e guardarci in faccia. Senza lanciare accuse e senza cercare scuse. Solo per cercare di capire dove diavolo stiamo sbagliando: genitori e figli, insegnanti e tutti quanti.

giovedì 19 aprile 2018

Le Baccanti chiudono la grande stagione della tragedia greca.

L’hanno ricordato Giacomo Poretti (sì, quello dei film con Aldo e Giovanni) e Luca Doninelli nella lezione “La Paura che non ti aspetti” che hanno tenuto durante il Festiva del Reading di Lomazzo. Lezione davvero magistrale, così stimolante da spingermi a nuove riflessioni sul testo di Euripide; su di un’opera che, più che mai, credo anche abbia valore di avvertimento. La nostra civiltà è nata nella luce d’Apollo; è il risultato di un lungo viaggio nella notte verso l’età della ragione. Noi, però, non siamo solo quello. Il dionisiaco, il ctonio, è pure parte della nostra natura. Inebriati da nuovi dei (come Dioniso per il mondo greco) possiamo riscoprirci feroci; tornare belve. Nelle Baccanti accade ad Agave, madre di Penteo, re di Tebe, che nel delirio della possessione dionisiaca fa a pezzi il figlio. Nella storia del nostro continente è accaduto per due volte nel secolo scorso. Resi folli dal nazionalismo, ci siamo massacrati nella Prima Guerra Mondiale. Un viaggio agli inferi, dentro il nostro lato oscuro, che abbiamo concluso due decenni dopo. Associando l’idea di razza a quella di nazione, facendo della dis-umanità una forma di governo e lasciandoci guidare dai peggiori demoni della nostra natura ci siamo distrutti. Non solo moralmente. In una Seconda Guerra Mondiale che ha ridotto l’Europa a un cumulo di rovine. Un’Europa che è di nuovo sotto attacco. Qualunque cosa si pensi di lui, Macron ha perfettamente ragione quando lo dice. Quando afferma che c’è chi sta preparando una nuova guerra civile europea. Sono i volti nuovi di un populismo che è semplicemente il fascismo di sempre. Con i feticci di sempre: la razza, l’etnia e la nazione intesa come identità tribale. Forse al servizio di un nuovo Dioniso orientale; di un nuovo zar che vuole ricostruire l’impero sovietico e compiere il sogno russo di avere libero accesso al Mediterraneo (sogno che, in fondo, è già stato alle origini della Grande Guerra). Di certo contro la ragione, strumento della sempre più dileggiata scienza “ufficiale” e contro la cultura, appannaggio delle maledette elite. Contro tutto quel che è speranza. Sfruttando i pregiudizi. Grazie a una crisi che ha reso plumbei gli umori. Presentandosi come salvatori di patrie che non corrono altro pericolo che quello rappresentato proprio da quei salvatori. Nazionalisti d’accatto. Basta pensare a Salvini, che ancora pochi anni fa disprezzava il tricolore. Ometti solo assetati di potere. Che vanno fermati con la forza di nuovi progetti e riaffermando antichi valori. Prima che la terra d’Europa, come quella del monte Citerone, torni ad intridersi di sangue. Se non del nostro, di quello dei nostri figli e nipoti, nel tragico finale di una tragedia che già stiamo vivendo. Senza accorgercene. Dimentichi che la pace in cui siamo sempre vissuti non è inevitabile. Magari tanto immemori del nostro passato, e delle sue decine di milioni di morti, da condividere i vaneggiamenti sovranisti di una Lega che gli ultimi sondaggi danno ben sopra al 20%.

mercoledì 18 aprile 2018

Sarà il prossimo Venticinque Aprile a dirci della nuova Italia,

di questa terza repubblica che non si capisce bene perché meriti di essere chiamata così e che proprio non sembra voler nascere. Secondo sua somma ignoranza Matteo Salvini, le elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia e Molise faranno il nome del presidente del Consiglio. Uno sragionamento da politicante di cui prendo atto. Impossibile usare il cervello per criticare una conclusione che non ha nulla a che vedere con i dettati della Costituzione e della logica. Quanto al cuore, preferisco usarlo per altro. Per cantare Bella Ciao con i miei figli e i miei amici, la sera della Festa della Liberazione. Festa, questa sì, che traccerà un confine. Da una parte ci sarà chi rivendica l’eredità morale della Resistenza; dall’altra staranno, con lo sguardo torvo e senza sorrisi, le schiere dei nuovi fascisti, con la camicia nera, verde o di qualunque altro colore. Sarà il momento di una definitiva e chiara scelta di campo. Senza la possibilità di terze posizioni. Una scelta che, a questo punto, dovrà fare anche il “nuovo” della nostra politica. “L’antifascismo non mi compete”, ha detto un paio d’anni fa il Grande Megafono. Un’esibizione dello stesso vigliacco opportunismo che fa ripetere ai capoccia del Mo’ vi mento di non essere né di destra né di sinistra. Un’ambiguità utile per raccattare consensi da tutte le parti ma che non può continuare. Davanti ai valori fondanti della Repubblica con la maiuscola non si può essere “altrove”. Se non si condividono, gettata la maschera e smentita qualunque pretesa di novità, si è gli eredi del peggio della nostra Storia. Sotto un velo sottile di politicamente corretto, e nonostante l'aria imbelle di Ciccino DI Maio, si è la feccia che risale il pozzo.

martedì 17 aprile 2018

Ma quante ne avete raccontate.

Ma quante. Siete stati i protagonisti di una campagna di disinformazione inaudita. Di una vera riscrittura della storia. Parlo di voi, indignati a comando e guerrieri dello sfascismo. Voi che siete quasi spariti dal web, mentre i giornali che contribuivano alla vostra stessa propaganda hanno cambiato registro. Come se l’Italia allo sbando della vostra narrazione fosse improvvisamente diventata un’altra. Come se il nuovo governo che ancora non c’è, e nessuno sa come sarà, avesse già compiuto il miracolo. Quello che sicuramente gli attribuirete. Falsari e immemori. Da una parte le vostre baggianate; dall’altra la realtà statistica. Quella di un'Italia condotta da Berlusconi e Lega fin sull’orlo del fallimento nel 2011, con in cassa i soldi per andare avanti sì e no un paio di settimane, quella che preferite dimenticare. Per raccontare dei “disastri del piddì”. Della stupidità dei “pidioti” che, pur con errori e incertezze, intanto hanno fatto ripartire il paese e lo lasciano in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno trovato. L’ondata di criminalità? Ve la siete inventata di sana pianta. Il numero di reati nel 2017 è stato il più basso degli ultimi dieci anni (e quello degli omicidi il più basso della storia). Lo ha ricordato ieri Minniti, alla festa per l’anniversario della Polizia. I milioni di africani sui barconi? Altra palla. Da luglio, ricorda ancora Minniti, non ci sono quasi stati più arrivi; centomila in meno che nel corrispondente periodo dell’anno precedente. Notizie che hanno fatto capolino (solo capolino, eh; senza i titoloni riservati al minimo reato commesso da un extracomunitario) anche sulle prima pagine di quei vostri quotidiani. Nascoste nelle pagine dell’economia, invece, sono altre notizie. Dati che rendono ridicole le vostre fesserie. “I disastri dell’Euro”? Continuiamo a esportare a più non posso, macinando record su record. “La Germania se ne approfitta”? Siamo il paese della UE che meglio ha mantenuto le proprie quote di mercato dall’introduzione dell’Euro. Sì, meglio anche dei tedeschi. Fesserie che diventano pericolose quando applaudite l’introduzione di dazi. Un paio di sere fa la CNN commentava quelli voluti da Trump. Ha mostrato un grafico. Non c’è solo la Cina a avere un forte attivo nella bilancia commerciali con gli USA. Ci sono anche il Giappone, la Germania e ... e già: l’Italia. Un grande paese piccolo solo nella visione di chi non lo conosce. Che ha problemi, e gravi, ma tutti interni, suoi specifici, da risolvere lavorando con serietà e a lungo. Altro che colpi di bacchetta magica. Lo ammettono, solo ora, anche i vincitori delle ultime elezioni. Le loro promesse sono realizzabili? Sì, forse, nel giro di tre o quattro o cinque o ... anni. Sempre che sappiano governare perlomeno come i “pidioti”. Voi speratelo e intanto preparatevi a ricominciare con il vostro mantra. Per un po’ funzionerà ancora. Poi “ma il PD, ma i pidioti” diventerà cosa vecchia. E saranno cavoli vostri.

lunedì 9 aprile 2018

Tre pillole su di noi.

Francese,
occitano, catalano, sardo, greco, albanese, sloveno, friulano, ladino dolomitico, cimbro, tedesco e, ovviamente, italiano. Partendo dalla Val d'Aosta e girando grossomodo in senso antiorario, sono le lingue parlate in Italia. A queste, e probabilmente ne ho dimenticato qualcuna, aggiungete decine di “dialetti”, dal piemontese al siciliano, a loro volta suddivisi in centinaia di varianti, che sono in realtà altre lingue neo-latine vere e proprie. Una riprova della nostra frammentazione? No, solo la dimostrazione della enorme e poliedrica ricchezza della nostra cultura. E l'invito, a chi parla di italianità per diritto di sangue, a cercare di conoscere un po' di più il nostro paese; ad abbandonare certi concetti barbarici, buoni al più per descrivere una realtà tribale, e a decidersi a diventare italiano per davvero.
Un diamante dalle mille facce.
Abraham Abulafia diceva che questo fosse la Torah: una gemma preziosa che scintillava per ognuno in modo diverso. Lo stesso mi viene da pensare di noi italiani. Non siamo tutti uguali, come voleva la retorica post-unitaria, ma non siamo neppure le schegge isolate che amano descrivere i leghisti di tutte le latitudini. Siamo le tessere di un mosaico che si è composto negli ultimi tremila anni. Un mosaico che si ostina a resistere, nonostante infiniti tentativi di distruzione, e di cui qualunque straniero coglie subito il disegno complessivo. Siamo noi, piuttosto, forse perché abbagliati dal nostro peculiare riflesso, che a volte non vediamo tutta la gemma.

Quelli di su e quelli di giù.
Che qualche milione di meridionali sia emigrato in Settentrione, nell'ultimo secolo, è cosa stra-nota. Per qualche bizzarra ragione, però, quando si pensa ad un milanese, per esempio, ci si dimentica che con ogni probabilità si tratta di qualcuno che ha perlomeno un nonno pugliese o di qualche altra regione del Sud. Ancora meno ci si ricorda dei settentrionali che, certo in epoche più lontane, hanno fatto il cammino inverso. Dei piemontesi e liguri che gli Altavilla chiamarono a “latinizzare” la Sicilia o degli altri “lombardi” che, sempre in età normanna e angioina, si stabilirono in Basilicata. E questo senza ricordare i molti che dalle vallate alpine sono andati a fare il mestiere di soldato presso i Borboni, o che a Benevento e “dintorni”, quasi mille anni prima, i Longobardi erano diffusi almeno quanto nelle regioni dove i loro pronipoti ora amano andarsene in giro con le corna in testa. Insomma, su è giù per lo stivale, ci si è sempre mossi e non sempre nella stessa direzione. Il risultato di questo gran rimescolamento? Be', siamo noi.

sabato 7 aprile 2018

Ci vuole una testa particolare per capire certe cose.

Per capire, per esempio, come l’ineffabile Di Maio all’improvviso possa parlare di ministri del PD che “in questi anni hanno lavorato bene”. Un’affermazione tutt’altro che insensata, ma che dovrebbe far venire l’orticaria ai suoi elettori, andati alle urne anche per demolire l’orrido PD, responsabile unico di tutti i mali nazionali dalle Guerre Puniche in poi (pare che una cugina seconda di Renzi avrebbe appaltato il lavaggio degli elefanti di Annibale). Ancora meno comprensibile la ragione per cui il sempre ineffabile azzimato nostro abbia posto un veto su Berlusconi, ma si dichiari disposto a un accordo con la Lega. Quale superiorità morale avrebbero i leghisti sui berlusconiani? Hanno sempre governato con loro. Hanno votato anche loro tutte, ma proprio tutte, le leggi volute da Silvio I re del Bunga Bunga. Hanno portato assieme a Berlusconi il paese a un millimetro dal fallimento. Sono poi corsi con lui a nascondersi un momento prima del disastro. Incapaci e vigliacchi, in parole povere. Quanto a onestà, lasciando perdere le vociferate amicizie ndranghetose di tanti esponenti del leghismo locale, il partito di Salvini resta quello che non sa dire che fine abbiano fatto 40 (o forse 48) milioni di contributi elettorali. Insomma, cosa farebbe della Lega una forza politica presentabile? Il suo ridicolo programma economico? Dazi per un paese che è tra i più forti esportatori al mondo e tassa sui robot quando, invece, abbiamo problemi di produttività? O è l’anti-europeismo filo putiniano a renderla appetibile? O la sua sempre maggiore vicinanza al neo-fascismo? Certo che per chi ha un megafono che dichiara “l’antifascismo non mi compete”, mentre apre le braccia per accogliere i militanti di CasaPound, questa potrebbe essere una mezza spiegazione. L’unica che riesco a darmi in attesa che qualcuno mi illumini. Qualcuno con la testa giusta e che non soffra di vertigini. Abile, soprattutto, nella difficile arte dell’arrampicata libera. Sugli specchi.

giovedì 5 aprile 2018

Povera SS della domenica.

Povero sfigato. Scusa se ti parlo così, ma un vero duro come te non ha certo paura di un linguaggio franco e diretto. O forse hai paura di tutto: sei uno sfigato, appunto. Mi sto rivolgendo, se non si fosse capito, a uno dei figuranti della 36 fuesilier kompagnie. Ne avrete sentito parlare: il 21 e il 22 aprile, a Cologno Monzese, rievocheranno “la vita di un reparto di fanteria alla fine della guerra.” Scopo della manifestazione? All'amministrazione leghista, che l’ha organizzata, inventarne altri. Quello vero è il solito, di questi tempi: spacciare l’equivalenza morale tra “i poveri soldati” sotto tutte le bandiere. Questo e appesantire l’atmosfera, avvelenarla, in vista del 25 aprile. Di una festa che la nostra peggior destra non riesce a digerire. Peggior destra di cui la Lega è ormai parte integrante. Proprio lì, a Cologno Monzese, sotto le antenne di Mediaset, uno dei suoi consiglieri è passato a CasaPound. In prestito ai vicini, per così dire. Ai finitimi. Altra gente che ama marciare; che trova forza nel gruppo, nel branco. Gente in fondo come te. Ti piace indossare quell’uniforme? E che mi dici del nome del tuo gruppo? Proprio un bel reparto la 36 waffen grenadier division der SS, per gli intimi semplicemente brigata dirlewanger. Tutta fatta di criminali. Grazie a una brillante idea di oskar dirlewanger, ufficiale già condannato per pedofilia. Un branco di stupratori, assassini e quanto di peggio ci si possa immaginare che, tirati fuori dal carcere, si resero responsabili di crimini orrendi nelle retrovie del fronte orientale. Non lo sapevi? Ma non sei un appassionato di storia? Non è questa la scusa che ti dai, per indulgere nella tua passioncella? O invece lo sai benissimo, ed è proprio questo che ti eccita. Come tanti si esaltano vedendoti sfilare. Sorridono pensando che le svastiche potrebbero tornare per davvero. Magari sognano una bella guerra. Spettacolare, come quelle che si vedono al cinema. Tanti come te. Vuoti a rendere nella terra dei centri commerciali. Pieni di un rancore che possono sfogare solo contro delle idee di nemici: l’immigrato, lo straniero o chi comunque non la pensa come loro. Rancore che hanno infilato anche nell’urna. In questo, hai una qualche utilità. Mentre i politologi si affannano a spiegare il voto dei tuoi/nostri conterranei, tu ne mostri una delle cause. Taciuto, negato, più antico della crisi, un profondo male di vivere. Lo stesso che fa aumentare il consumo di psicofarmaci e che non posso liquidare con una battuta. Perché la tua sfiga è dolore e il dolore va comunque rispettato. Perché la tua sfiga mi fa paura.

mercoledì 4 aprile 2018

Da luglio, gli stipendi non si potranno più pagare in contanti.


Lo stabilisce una nuova legge. Il suo scopo? Rendere “tracciabili i flussi finanziari”. Detto altrimenti, complicare la vita degli sfruttatori; dei troppi imprenditori che danno ai propri dipendenti solo una frazione della retribuzione scritta in busta paga. Una pratica tutt’altro che nuova. In alcuni settori, quasi una tradizione. A fine anni Ottanta, per esempio, nella bella città veneta in cui vivevo allora, le commesse degli eleganti negozi del centro ricevevano solo la metà dello stipendio previsto (e che i loro datori di lavoro dichiaravano al fisco). Un fenomeno che la crisi ha solo ampliato; che oggi si stima riguardi almeno tre milioni di lavoratori. Nel silenzio di quasi tutti. In particolare della nostra destra securitaria; dei sepolcri imbiancati sempre pronti a predicare ordine e disciplina (per gli altri). Li conoscete. Quelli che vorrebbero sbattere in galera i vu’ cumprà, colpevoli di deturpare le vie dello shopping con i loro tappetini. Quelli che vorrebbero punire con l’ergastolo, o poco meno, qualunque ladruncolo. Feroci con gli ultimi ma comprensivi, oh quanto comprensivi, con gli evasori fiscali. Con gli evasori e con gli schiavisti. Con chi commette uno dei reati peggiori; quella che, quanto meno, è una forma di estorsione e che come tale andrebbe punita. Oggi chi sfrutta il lavoro nero è di solito soggetto solo a sanzioni amministrative. Dovrebbe, lui sì, finire in carcere. E’ l’avvoltoio che si approfitta dei deboli. E’ il vigliacco che si abbandona al sopruso senza rischiare quasi nulla. E’ colpevole di quello che, anche per Pio X era un “peccato che grida vendetta al cospetto di Dio.” 
Un cancro che attacca il tessuto connettivo della società almeno quanto la corruzione, ma che non provoca gli strilli scandalizzati dei nostri moralisti in servizio permanente effettivo. Cui non dedicano le prime pagine neppure certi giornali, magari con le redazioni piene di collaboratori sottopagati. Una piaga così diffusa da far dubitare dell’opposizione tra politica corrotta e società sana cara alla retorica populista. Una politica e un PD che, mentre “non facevano nulla di sinistra”, nel 2016 hanno se non altro approvato la legge contro il caporalato. Un populismo che su questo tema, come su qualunque altro rischi di scontentare milioni di elettori, per il momento tace. E, sono aperte le scommesse, continuerà a starsene zitto.