venerdì 30 marzo 2018

Prenderei la chiave della cella e la butterei via.

La cella in cui richiuderei gli apostoli della violenza. I cattivi maestri, che esistono eccome. Tutti quelli che fanno proselitismo tra i giovani a favore di questo o quel movimento terroristico. Giustissimo, quindi, che il reclutatori dell’Isis finiscano in carcere. A maggior ragione se, come a Foggia, predicano la necessità del martirio a dei bambini. Un episodio che unito a quello di Torino, dove operava un altro propagandista della jiahd, ci invita a non abbassare la guardia. Questo, di sicuro. Se basti per parlare di una minaccia incombente, addirittura di un pericolo che non sarebbe mai stato così alto, è invece qualcosa che lascio giudicare al ministro degli Interni. Un ministro che, però, soffre di strabismo. Nel corso del 2017, a minacciare, pestare, massacrare e sparare, da noi non sono stati gli islamici; sono stati soprattutto i neo-fascisti. Gli appartenenti a una galassia di associazioni nere che opera alla luce del sole, sicura della propria impunità. Nonostante la XII disposizione finale della nostra Costituzione, che vieta la riorganizzazione del partito fascista. Malgrado la legge Scelba preveda il reato di apologia del fascismo. Di un fascismo che è tornato a marciare per le vie delle nostre città. Tra saluti romani e sventolare di svastiche. Sotto gli occhi delle forze dell’ordine. Senza che il ministro o la magistratura si siano sentiti in dovere di intervenire. Apparati dello Stato che hanno scelto di far finta di nulla. Per complicità, viltà o va sapere cosa. Zitti prima, lasciando che i referenti politici delle teste rasate si presentassero alle elezioni. Muti oggi, mentre le forze politiche che hanno ammiccato a quelle teste rasate si apprestano a governare. Mentre l’applauso di chi sta sempre dalla parte dei vincitori copre lo scalpiccio degli anfibi.

mercoledì 28 marzo 2018

Spero.


Grazie a quei ragazzi spero.
Tra noi e loro c’è l’Atlantico, eppure la loro luce è tra le poche che illumini questa notte. Li avrete visti. In ottocentomila solo a Washington. A protestare per chiedere leggi più severe sulla vendita delle armi. Uniti da un movimento spontaneo sorto dopo l’ultimo massacro in una scuola superiore. Capaci di organizzare, nel frattempo, manifestazioni in altre ottocento città. Contro la politica, dicono i commentatori, che non vogliono etichettarli. Contro la potentissima NRA, l’associazione dei fabbricanti e produttori di armi, che con le sue donazioni si è comprata il Partito Repubblicano, in pratica. Contro il partito di Donald Trump, detto altrimenti. Alla faccia di chi vorrebbe che ci siano i giovani dietro l’ondata populista che sta scuotendo l’Occidente. Ragazzi che in America, a quanto dicono le inchieste, non vogliono la “destrutturazione dello stato organizzato”, ma sognano il suo esatto contrario: degli Stati Uniti più simili all'Europa. A quello che era l’Europa fino a ieri e che ha descritto loro il vecchio Bernie. Con questo, non voglio dire che le loro rivendicazioni si tradurranno necessariamente in voti per i democratici. Il loro “sentimento”, però, è quello. Lo stesso del milione di donne che ha marciato subito dopo l’elezione di Trump. Lo stesso che, ne sono certo, spazzerà via la maggioranza repubblicana nelle prossime elezioni di metà-mandato. Una voglia di apertura, e non di chiusura, di corsa verso in futuro e non di ritorno al passato, che arriverà anche da noi; che farà sembrare decrepiti quelli oggi si spacciano per nuovi. Non me lo fanno dire delle doti profetiche che non ho. Solo ricordo che il ’68 è nato tra il 1963 e il 1964 e non nel centro di Parigi o di Praga ma sui prati di Berkeley. Anche allora come risposta a problemi apparentemente solo americani (la segregazione razziale e la guerra in Vietnam). Sempre a un oceano di distanza. Un Atlantico che, però, si è fatto ancora più stretto.

domenica 25 marzo 2018

Una gran puzza di stalla.

Si sente quello. Nonostante l’incenso di troppi turiboli. Odore di mercato di vacche. Di scambio di voti. Della peggior politica politicante. Vecchia. Decrepita. Un Fico alla Camera per una Casellati al Senato. Il nuovo avanza eleggendo alla seconda carica dello Stato una berlusconiana di ferro, già sottosegretaria alla Salute e alla Giustizia, nota soprattutto per un paio di tele-risse con Marco Travaglio. Lei a sproloquiare in difesa di Silvio, amico disinteressato di Ruby Rubacuori (momenti altissimi della storia patria); Travaglio a definire “puttanate” quel che lei diceva. Marcuccio loro (dei grillini, intendo) che ora si starà arrampicando sugli specchi. Come tanti. Come tutti quelli che hanno passato gli ultimi anni a denunciare inciuci; a scandalizzarsi e indignarsi per ogni cosa. Il tutto mentre il “popolo della Rete” lo prende in quel posto, perché “uno vale uno” solo quando serve da cortina fumogena. Altro che democrazia in direttissima: accordi sottobanco da Prima Repubblica; prove generali per un governo con i leghisti che gli elettori del M5S dovranno trangugiare. Come ampiamente previsto; esito di un’alleanza sostanziale che dura da anni. Tutti contro la casta? Ma non siamo ridicoli. I leghisti sono in politica da sempre. Sono casta più di quasi tutti. Governano il Nord da decenni. Sono corresponsabili di tutti i disastri del berlusconismo. (Date un po’ un’occhiata a quanto ci è costato il federalismo alla padana ....) No, leghisti e grillini hanno altro in comune. Degli amici a Mosca? Può essere. Di sicuro rappresentano il ritorno di qualcosa di già stravisto: sono gli eredi di un partito che non faceva pagare le tasse al Nord e prometteva assistenzialismo al Sud. Uniti sono la nuova DC. Sissignore. Molto peggio della vecchia: senza nessuna C e con pochissima D. Una DC senza ideali, ridotta a pura conquista del consenso e del potere. A un populismo che, però, non potrà fare altri debiti; che dovrà sostenersi inventando nemici esterni, quasi certamente l’Europa, mentre mi pare già di sentir parlare di “democrazia reale” contrapposta alla “democrazia formale”. I discorsi di ogni regime. Anche di quello che sta arrivando. In un futuro che è facile ma inutile prevedere. Mentre nel presente possiamo solo restare a bocca aperta. No, non per lo stupore davanti alle mirabilie della “terza repubblica”. Per respirare nonostante il tanfo d'ipocrisia

venerdì 23 marzo 2018

Guerra.

Guerra commerciale, per ora. L’ha scatenata il Carotone, dopo essersi sbarazzato anche dei propri consiglieri economici. Perché lui sa tutto. E poi, mica per dire, è una persona mooolto intelligente. Almeno, lo dice lui. Di se stesso. Lui che ha piazzato sessanta miliardi di dazi sulle importazioni cinesi. E immediatamente provocato un crollo di portata storica di tutte le borse mondiali. I primi avvisi di una tempesta che rischia di danneggiare tutti. Perché sarà anche mooolto intelligente, il Carotone, ma proprio non riesce a capire che ormai l’economia planetaria è una sola e che se la Cina sta male, tanti altri staranno peggio. Pensate solo a Ferrari e Maserati: per loro la Cina è uno dei principali mercati. E lo stesso vale per tante altre aziende del Made in Italy. Qualcosa che andrebbe spiegato di corsa a Salvini. La dimostrazione vivente che furbizia e intelligenza non sono la stessa cosa. Soprattutto, qualcuno che dell’Italia non ha mai saputo nulla. E continua a non saperlo. Neppure che non è la repubblica delle banane che pensa di dover governare, ma un grande paese esportatore. Molto più simile alla Cina che agli USA, se volete. Con un attivo della bilancia commerciale che si aggira intorno ai 50 miliardi (e agli 80 se non dovessimo importare il petrolio). Un grande paese che subirebbe solo danni da una guerra commerciale. Le cui aziende, altro che “i disastri dell’Euro”, stanno macinando record proprio nelle esportazioni. Aziende dove tutti incrociano le dita, sperando il Carotone si fermi. Un paese i cui problemi erano solo legati al mercato interno. Fino a ieri. Ora ci sono anche un Carotone mutante che vuole passare alla storia e un elmocornuto guerriero padano che vorrebbe occupare palazzo Chigi. Con la stessa supponenza del Carotone. Brillando solo per protervia e ignoranza.

giovedì 22 marzo 2018

Sto pensando a una poesia d’amore e a Ezra Pound.

Al povero vecchio Ezra. Una vittima della disinformazione, a modo suo. Di una guerra di propaganda che ha condotto dalla parte sbagliata. Saprete. Ogni settimana, per un’ora, dai microfoni dell’Eiar parlava alle truppe alleate per convincerle delle ragioni del fascismo. Di un regime che aveva sempre appoggiato. Per amore dell’Italia, paese in cui aveva scelto di vivere, e per illusione. Quella che poteva avere un poeta americano, lontano dal proprio mondo. Poeta che divenne così traditore. Americano rinchiuso dagli americani alla fine della guerra. In condizioni bestiali. Da impazzire. E impazzì, o quasi. Mentre il suo nome era dannato. Per quelle trasmissioni. Per l’antisemitismo in cui a volte era sfociato il suo anticapitalismo. Nome dannato, e oggi abusato, ma impossibile da cancellare. Dalla storia della cultura, prima che della letteratura. Cui si deve, per me più che a ogni altro, la nascita dell’estetica moderna. Nei suoi versi espressione e forma si combinano libere dal canone. Versi che cantano, pur senza metro né rima, per rime interne e assonanze. Fatti di parole scelte con orecchio finissimo e straordinaria sensibilità. Quella che lo fece innamorare della cultura giapponese. Che gli impose di aiutare Joyce a trovare un editore. Sì: il nostro mondo passa da lui. Ne parlavo con un amico ieri. Lo capì, ma ci vogliono i giganti per capire i giganti, Pier Paolo Pasolini. PPP che andò a trovarlo, osando sfidare gli anatemi dei soliti partigiani del 26 aprile. PPP che mi ha spinto a leggerlo. E a scoprire così la Cappella Sistina del modernismo. Più ancora del mio amato Ulysses. Parlo dei Cantos, che ho affrontato già da adulto. Che ho letto, riletto e ancora non capito. Non del tutto. In cui si entra in punta di piedi e si resta con la bocca aperta, per giorni, guardando all’insù. Come in una cattedrale gotica. Come mi è successo con la Divina Commedia. Davanti all’ascesa vertiginosa delle colonne e nervature di un pensiero che sembra perdersi nell’infinito. Oltre la miseria dei giorni e della politica. Eterno come i versi di questa poesia. Una delle più belle d’amore che conosca. Delicata e forte. Di poche parole e mille immagini. E’ sempre sua. Del vecchio, “cinico”, Ezra. Quando la lessi la prima volta, nel commento si diceva che Pound l'avesse dedicata a sua figlia. Ora so che non è vero; che era destinata a un'altra giovane donna. Non importa. Robert Frost diceva che una poesia "non significa ma è". E anche perché anche io ho una figlia, e nella lingua dei miei nonni valtellinesi “rais” vuole dire sia radici che figli, continuo a pensare che questa sia bellissima. Tanto da volervene offrire una traduzione.
Una ragazza.
L’albero è entrato nelle miei mani,
La linfa ha risalito le mie braccia,
L’albero è cresciuto nel mio petto-
Verso il basso,
I rami crescono fuori di me, come braccia,
Albero tu sei,
Muschio tu sei,
Sei le violette con il vento sopra.
Una bimba -così alta - tu sei,
E tutto questo è follia per il mondo.

Questo è l'originale.

A girl.
The tree has entered my hands, 
The sap has ascended my arms, 
The tree has grown in my breast- 
Downward, 
The branches grow out of me, like arms. 
Tree you are, 
Moss you are, 
You are violets with wind above them. 
A child - so high - you are, 
And all this is folly to the world.

mercoledì 21 marzo 2018

Capisco il voto del Meridione.

Lo capisco. La voglia di tentare vie nuove. La speranza. Forse il sogno. Anche confuso. Tra mille dubbi. Meglio della certezza del niente. Dell’immobilità. Non capisco il voto dei miei conterranei, invece. Non me lo spiego con la ragione. C’è un partito che governa lì da vent’anni. Tanto da poter essere considerato l’unico responsabile dei problemi locali. A Milano è stato deludente. Altrove è valso le vecchie giunte democristiane. Non di più. Un partito tutt’altro che onesto. Che ha fatto sparire quaranta milioni di Euro di contributi elettorali. Un partito che ha governato anche l’Italia. Male. Malissimo. Portandola sull’orlo del fallimento. Sette anni fa, non ai tempi delle guerre puniche. C’è un altro partito che, invece, si è ritrovato a governare poi. Tra le rovine. Con le casse vuote. Senza margini di manovra. Un partito che ha fatto un mezzo miracolo. Commettendo errori, certo. Con un segretario che non è simpatico a molti, pure certo. Che, però, è riuscito a continuare a pagare stipendi e pensioni (e non era detto). Che ha fatto tornare a crescere il paese. Soprattutto lì, dalle mie parti. Dove l’occupazione è tornata ai livelli di prima della crisi. Dove le aziende esportatrici macinano record. Un partito che certo si è dimostrato meglio, infinitamente meglio, di quell’altro. E che invece ha perso consensi. E proprio a favore dell’altro. Degli incapaci che ci avevano portato a un passo dal default. Tutto questo per i “negher”? Anche. Per i “negher” che non ci sono, però. Per i cinque milioni d’islamici di un’Italia abitata per il venti o 30% da stranieri che esiste solo in una narrazione demenziale. Dove i rifugiati vivono in alberghi quattro stelle, ricevono trentacinque euro il giorno (e non tre) e hanno tutti l’i-phone ultimo modello. Un’Italia dove diminuiscono tutti i reati, dicono le statistiche, ma che sarebbe in preda alla delinquenza. Dove gli immigrati lavorano un anno e poi vanno in pensione. Per colpa del PD. Che ha creato il debito pubblico. Che è colpevole di tutti i mali. Che ha governato ininterrottamente dal 1945. Perché prima si stava bene. Quando c’era lui. In una riscrittura della storia che è diventata la Storia. Vangelo, per tanti. Come sono Vangelo i disastri dell’Europa (Quali? Non importa: ci sono.) Il tutto avvenuto in rete. Sulle colonne di fb prima che altrove. Lo hai visto in diretta. Lo hai visto e adesso senti i manager di Cambridge Analytica intervistati da MSNBC. Hanno aiutato Trump. Hanno favorito la Brexit. Lavorando su fb. Spingendo verso certe pagine e non verso certe altre. Fino a convincere la gente di “fatti che potrebbero non essere veri”. Fino a convincere gli americani che Obama aveva condotto il paese alla catastrofe. E che Hilary era il demonio. Fino a far credere agli inglesi (già fuori dall’Euro) di mantenere mezza Europa. Senti quei manager raccontare come manipolano la percezione della realtà e ti chiedi. Li senti dire che hanno lavorato anche in altri paesi e ti chiedi ancora. Senti che tra i loro padroni c’è il neo-nazionalsocialista Bannon, che hanno ricevuto soldi dai petrolieri russi, e continui a chiederti. Anzi, inizi a capire qualcosa.

martedì 20 marzo 2018

Leggo quei commenti e, per reazione, penso al loro sorriso.

I commenti sono quelli, atroci, riservati alla ong che ha fatto arrivare nel porto di Pozzallo 218 migranti. La storia è su tutte le prime pagine. Un gommone zeppo di migranti. La nave della ong che li prende a bordo e, nonostante le minaccia di essere presa a cannonate, rifiuta di consegnarli a una motovedetta libica. Li porta in Sicilia, invece, guadagnando alla ong non una medaglia ma un’imputazione per associazione a delinquere. Nel paese delle tre mafie, per tragica ironia. In un paese che non sa più cosa è. Che ha perso l’anima. Che gronda di frustrazione, di odio. Di una cattiveria che muove sulla tastiera le dita di tanti. Di troppi che sognano un’Italia tutta bianca. Ingabbiata da sempre più divieti. Dove resta solo la libertà di conformarsi. Di essere come loro. I discendenti di quei due, che quei due non riconoscerebbero. Guardateli. Tutto, in loro, comunica apertura. Sicurezza di sé. Serenità. Se ne stanno lì, sdraiati sul loro triclinio, felici di essere assieme. Alla pari e con sulle labbra quel sorriso. Sorriso arcaico, lo definiscono gli esperti. Caratteristico della fase più antica dell’arte etrusca, dicono ancora. Il vero manifesto ideologico della civiltà italiana. Di quello che può essere l’Italia al proprio meglio. Il paese della Dolce Vita? Il paese che, quando se ne ricorda, sa cosa conta veramente. Tutto quanto sta dentro quel sorriso che dura da duemilacinquecento anni. Che era lì, su quelle labbra, prima che arrivassero gli imperatori e i papi. Che sarà ancora lì, tra cinque o cinquant’anni, quando saremo tornati a vedere la luce della ragione. Quando l’Italia smetterà di essere quella di oggi. Rancorosa. Spietata. Anche per chi la ama, soprattutto per chi la ama, irriconoscibile.


sabato 17 marzo 2018

“Comprendere” le “ragioni” degli “altri”.


Si deve, per contrastare la slavina leghista. E si devono usare quelle virgolette. Perché “comprendere” vale solo nel più stretto dei sensi. Non deve portarsi dietro l’idea di condivisione insita nelle tante analisi del dopo-elezioni che, forse per servilismo verso i vincitori, forse dando voce a pii desideri, tentano di spacciare il leghismo come fisiologico. Perché quegli “altri” non sono degli alieni o gli Hyksos di Benedetto Croce; sono una parte di noi. Sono come noi, ma mossi da ideali antitetici ai nostri. E da “ragioni” che con la ragione hanno poco a che vedere. Con loro è inutile impostare il confronto sul piano razionale; mostrare dati e statistiche. Non sono la reazione a un’inesistente invasione nera o araba. Sono figli di una crisi che non è quella economica. Non a caso abitano le regioni più ricche del paese. Sono il risultato italiano del trionfo neo-liberista. E del completo fallimento del consumismo: un modello di non-vita; una riduzione dell’uomo a ingranaggio che produce solo nevrosi. 
Un irato malessere psicologico è il vero fenomeno di massa di tutta la sterminata suburbia padana. Figlio della fine di ogni identità, prospettiva o sogno. Non ci sono più case del popolo né si frequentano le parrocchie, a Suburbia. Si sta soli. Con i volti dentro gli schermi per non pensare. Sono illuminanti i folli commenti che accompagnano gli affondamenti dei barconi. Grondano odio. Soprattutto invidia. Sì: invidia verso gli ultimi della terra perché, comunque, “non fanno un ca ...volo.” Non sono dentro il meccanismo del lavora-consuma-crepa. Dentro un tritacarne che non smette mai di funzionare. Neanche nel “pacchetto vacanze” acquistato con lo sconto. Neanche il sabato passato nel centro commerciale. 
Così va il mondo. Tutto il globalizzato mondo McDonald. Un deserto in cui la Lega offre i punti di riferimento minimi del sangue e della razza. In cui Salvini (già comunista padano) fa sentire se non altro una voce critica verso un capitalismo finanziario, e qui verrebbe quasi da ridere, presentato come prodotto delle “cosmopolite élite di sinistra.” Critica che si traduce in una fuga nel passato. In una combinazione di protezionismo e luddismo (la tassa sui robot...) che sarebbe disastrosa. Un vago nazional-socialismo che, per gli abitanti di Suburbia, è comunque più attraente della serietà e responsabilità che sono diventate l’unica cifra della sinistra. 
Una sinistra denaturata che, in fondo, ha promesso solo una continuazione del presente. Esattamente quello che l’abitante di Suburbia non vuole. Quello che la stessa sinistra, in tutta la sua storia, non ha mai accettato. Una sinistra che avrebbe tutto per riconquistare ampi consensi se solo ricordasse di essere sinistra. Se, oltre a far quadrare i conti, tornasse a proporre un proprio modello di società. Un proprio progetto contrapposto a quello localista. Fatto non solo di ragione, ma anche di sogno. A occhi aperti, con lo sguardo rivolto in avanti, verso un mondo che sarà comunque sempre più piccolo; dove i problemi saranno sempre più globali. Un sogno contenuto in una strofa di una canzone di centocinquanta anni fa. Quello di costruire, partendo dall’impegno sul territorio, magari tornando ad arrostire salamelle nelle feste dell’Unità, “l’internazionale futura umanità”.

giovedì 15 marzo 2018

Un piatto di spaghetti con le vongole.

Se cerchi delle ragioni per sperare nell’Italia, puoi trovarle anche lì. Alla prima forchettata capisci perché. Potrà avere dei problemi, il popolo che ha creato quella raffinata combinazione di sapori, odori e consistenze, ma ha anche del genio. Dell’intelligenza e altro. Cominciamo dalla lista della spesa. Oltre a spaghetti e vongole servono solo olio, aglio, prezzemolo e un mezzo bicchiere di vino bianco. E sale e pepe, ovvio. Certi paragoni sono antipatici, ma pensiamo ai nostri cugini francesi. Sono bravi in cucina. Non sono dei barbari per cui buono più buono deve fare qualcosa di ancora più buono. (Qualunque riferimento alla mentalità a stelle e strisce è voluto.) Per fare uno stufato, però, hanno bisogno di una ventina d’ingredienti; per una salsa ne servono loro una decina. Poveri: lavorano per approssimazione. Questo serve per bilanciare la punta acida di quello; altro serve a compensare il gusto troppo dolce di altro ancora. Noi, no. Siamo crociani anche in cucina: i nostri piatti nascono da folgoranti intuizioni. Sono poesie fatte di pochi ingredienti. Pochi, ma scelti con cura maniacale. Le vongole? Chi le preferisce grosse, carnose e delicate; chi le vuole piccole e sapide. Tutti abbiamo in ideale platonico di vongola da comparare con quelle reali che troviamo al mercato. Gli spaghetti? Possiamo dibattere per ore di marche e tipi di trafilatura e spessori. Non dibattiamo, invece, sull'olio, ma solo per non ferire orgogli regionali e provinciali. Lo stesso per quel mezzo bicchiere di vino bianco: i gusti son gusti. Però, dove è meglio sfumarlo? Nella padella delle vongole appena aperte o in quella in cui abbiamo fatto soffriggere l'aglio, dopo aver aggiunto l'acqua rilasciata dalle vongole? E l'aglio? Si confrontano diverse scuole di pensiero. Spellato o in camicia? Tritato, tagliato a fettine, schiacciato o intero? Si discute. Certo mai quanto sul significato del termine “al dente”. Perché siamo tutti d'accordo che gli spaghetti (mai spaghettini, per carità) debbano essere al dente, ma tra Nord e Sud abbiamo idee molto diverse sull'ubicazione di quel punto di cottura. Punto sfuggente, perché lo si supera in una manciata di secondi, e idee lontane, a conti fatti, un minuto o massimo due. Non mi venite a dire che gli italiani non hanno il senso del tempo. E non mi parlate di rigore teutonico: gli italiani in cucina sono meticolosi come pochissimi. Avrebbero dentro di sé, anzi, quel che serve per essere tra i migliori in tutto. Avrebbero, se fossero così attenti ai dettagli anche lontani dai fornelli. E comunque il prezzemolo dev’essere asciugato bene prima d’essere tritato, altrimenti annerisce. E va tritato all’ultimo minuto se si vuole che conservi il proprio aroma. Questo è risaputo. Il peperoncino, piuttosto, ce lo mettiamo o no? E come? E dove? E quando?

mercoledì 14 marzo 2018

“La parola ‘intellettuale’ era diventata un insulto.


Significava che una persona non capisce la vita e si è allontanata dal popolo.” Lo scrive Milan Kundera, nel “Libro del riso e dell’oblio”, parlando dello stalinismo, prima di aggiungere: “Tutti i comunisti che erano impiccati da altri comunisti venivano gratificati con quell’ingiuria.” 
Accade sempre. In tutti i regimi. Da quello nazista alla Cambogia di Pol-Pot, in cui pare bastasse portare gli occhiali per essere fatti fuori. Squalificare gli intellettuali, nemici del popolo e potenziali traditori della Patria, è tra gli obiettivi primari di tutte le dittature. Perché gli intellettuali, per definizione, possiedono strumenti critici e capacità di pensiero autonomo. Perché conoscono quella Storia che i regimi in formazione hanno una gran fretta di riscrivere. 
Regimi come quello che in Italia non c’è ancora, ma sta costruendo le proprie premesse. Tra queste, proprio un costante dileggio delle “elite intellettuali”. Elite mai ben precisate, ma la vaghezza, la nebulosità, l’essere tutto e il suo contrario, ha accompagnato l’ascesa al potere dei duci e ducetti di ogni epoca. Intellettuali che da noi, questo sì, sono una minoranza dentro una minoranza. Tutto il loro pubblico è quel 4% degli adulti che legge la metà dei libri venduti ogni anno in Italia. Il resto del paese non legge. Anche quando ha un titolo di studio. Dopo averlo raggiunto non toccano più un libro il 20% dei laureati e il 40% dei diplomati. Stando alle statistiche, il 96% degli italiani compra mezzo, sì mezzo, libro l’anno. E tra i libri ci sono i ricettari di cucina e le guide di giardinaggio. 
Una realtà che rende ridicole le accuse a scrittori e artisti. Sono colpevoli, se per caso, solo di una cosa: di non avere capito la propria irrilevanza. Di essere dei pesci rossi rimasti prigionieri di quel piccolo acquario di lettori. Senza vedere oltre il vetro. Senza rendersi conto che il paese reale è altro. Fatto di quella brava gente con poche letture, e pronta a bersi qualunque panzana, che è la carne da cannone di tutti i fascismi. Anche di quello che sta tornando. Magari in un'altra forma. Magari senza la camicia nera. Con le offese di sempre a chi cerca di ragionare; a chi si sforza di fornire dei dati. Attaccando i giornalisti assieme agli intellettuali. Proprio come sta facendo Trump in America. Per poter strillare che le notizie che non piacciono sono “fake”. Per riscrivere anche il presente e il futuro con le mani libere. Dalle pastoie della “cultura ufficiale asservita ai poteri forti”? No: da qualunque rapporto con il reale. Con una realtà che, mentre passano i regimi fondati sulla menzogna e l’illusione, resta l’unica, eterna, rivoluzionaria.

martedì 13 marzo 2018

Leggo i dati definitivi sulla criminalità e penso a Milan Kundera.

Le cifre sono pubblicate in apertura dal Corsera. Confermano quel che intuisce chiunque torni in Italia dopo essere stato in giro per il mondo; che il nostro paese è sempre più sicuro. Un paese dove si uccide cinque o sei volte meno che vent’anni fa. In cui sono diminuiti anche furti e rapine. Di quasi un quarto solo tra 2014 e il 2017. Numeri che smentiscono la narrazione leghista. Che denunciano per quello che è, né più né meno che una truffa, il successo elettorale ottenuto dalla lega grazie a un programma fatto solo di lotta all’immigrazione. Di una lotta giustificata, anzi resa necessaria, da un’emergenza sicurezza che, semplicemente, non esiste. Che è una panzana. Una bufala. Una falsificazione del nostro presente e del nostro passato. Di un passato di sangue e delitti. Di violenza politica e non solo. Con le rapine a mano armata come sport nazionale. Con un sequestro di persona ogni fine settimana. Con i tossici ad ogni angolo. A morire con una siringa infilata in un braccio. A rompere finestrini e rubare autoradio per procurarsi una dose. Mentre i giornali di Milano strillavano “undici morti in undici giorni”, per raccontare dell’ascesa dell’astro Epanimonda nel firmamento criminale della città. Mentre c’erano davvero, altro che le baggianate di oggi, quartieri in cui di notte non si poteva entrare. Con tanto di posti di blocco della criminalità. Quarto Oggiaro e la Comasina di Renato Vallanzasca, tanto per dirne due, sempre a Milano. In una città diventata soporifera, stando ai dati. Nella stessa Lombardia in cui, qualche mese fa, mi trovo a tenere una presentazione. “Dice bene lei,” m’interrompe una signora, “ma con questi qui non si può più uscire. Io ce li ho sempre lì davanti a casa”. Non sono sicuro di avere capito bene: “Ma sono sempre lì a fare cosa? La minacciano?” La signora chiarisce: “No, no. Sorridono anche. Ma in quel modo lì che hanno loro. E poi ti guardano.” Loro che ho scoperto poi essere gli ospiti di un centro d’accoglienza. Neri cui bastava essere neri per essere ritenuti pericolosi. In un paesotto dalle mie parti che era poco meno che un mercato all’aperto della droga. In cui, tra i miei coetanei, l’eroina ha fatto tanti morti come una guerra. Ragazzi di un tempo che pare non esserci mai stato. Mi tornano alle mente i loro volti e, sempre, quella frase che ho incontrato nel primo capitolo del “Libro del riso e dell’oblio”. Questa: “La lotta dell’uomo contro il potere è quella della memoria contro l’oblio.” Un potere che si sta costituendo grazie alla disinformazione a all’inganno. Un oblio che coprirà tutto se continueremo ad avere la memoria dello scarafaggio. Mai come in questo momento, mentre, non solo per quanto riguarda la criminalità, assistiamo a una fantasiosa riscrittura della Storia, ricordare è resistere.
P.S. Nel 2017 in Italia ci sono stati 355 omicidi. (Per capire quanto è pericoloso il paese, abbiamo avuto più di quattrocento bagnanti morti affogati). Di questi delitti, 140 sono stati femminicidi. A mettere in pericolo le donne, qualcuno dovrebbe tornare a spiegarlo a quella signora, non sono i neri; sono i mariti.

lunedì 12 marzo 2018

Rispetto.


Questo gli hanno mostrato i diecimila che si sono riuniti sabato per commemorarlo. Idy Diene, il mio coetaneo senegalese ucciso a Firenze, però, quel rispetto lo avrebbe meritato anche da vivo. Lo avrebbe meritato lui e lo meritano quelli come lui.
“Sarebbe potuto restare a casa sua”. Ho letto espressioni come questa nei commenti dei soliti mentecatti. In quel “sarebbe potuto” c’è quasi tutto. Avrebbe potuto arrendersi. Rinunciare a lottare. Accettare il destino scritto per lui alla nascita. Restarsene in Senegal accontentandosi di sopravvivere. Di essere come tutti, dalle sue parti. Invece aveva trovato il coraggio di andarsene. Come accade a pochi; di solito i migliori: i Marco Polo e i Cristoforo Colombo. Quelli che vogliono costruire il proprio futuro. Quelli che vogliono vedere com’è l’altro capo del mondo. E questo senza dire dei rischi che avrà corso durante il viaggio; delle privazioni e degli stenti, che avrà affrontato durante i primi tempi da noi. 
L’elmo con le corna in testa, lo spadone in mano, il fiero leghista se ne sta sul prato di Pontida. Dettagli insignificanti come il colore della pelle a parte, il longobardo che impersona aveva molto più in comune con Idy che con lui. Idy avrebbe attraversato le Alpi con la sua sippe. Il feroce geometra o ragioniere se ne sarebbe rimasto tranquillo in Scania o in Pannonia; a casa sua, appunto. A malapena con il coraggio di tirare avanti. Quello minimo che è mancato all’omicida. Sessantacinque anni ex tipografo. Di lui non so altro. Voleva uccidersi. Gli è mancato il coraggio anche per questo. Ha preferito andare ad ammazzare qualcuno per finire i propri giorni in carcere. L’omicidio come forma di suicidio civile. Un qualcuno sarebbe potuto essere chiunque, ma che non a caso è stato un nero. Nero e quindi diverso, meno umano, almeno per il tempo di premere il grilletto. Un istante di razzismo condensato. Lo stesso che è di tanti che negano di essere razzisti. Li conoscete. Quelli che “anche loro hanno il diritto di vivere” o che “in fondo sono anche loro sono brava gente”. Quelli che non sospettano neppure che loro possano essere parte di noi; che siamo tutti quanti la stessa gente, la stessa umanità. Sono ovunque come dappertutto ci sono sconfitti come l’assassino. Quelli a cui è andata male. Quelli, molti di più, moltissimi di più, che non ci hanno mai neppure provato. Prigionieri di un quartiere o di una città di provincia. Magari senza drammi. Uno stipendio, che se ne va tra supermercato e mutuo, e un grande schermo in soggiorno. Per spiare il mondo. E sognare. E invidiare. Triturati dalla vita, magari prima ancora di aver raggiunto la mezza età, per cui sarebbe facile provare pietà. Sarebbe, se non fossero così feroci. Se non avessero tanta voglia di distruggere tutto e tutti. Sono concentrati di rabbia che, invece, mi spaventano. Perché sono così tanti. Perché, temo che questo dica il risultato elettorale, sono ormai maggioranza.

sabato 10 marzo 2018

Una bellissima amigdala dell’Acheuleano.

Lo dico, mostrando le immagini dell’ascia di pietra, e i loro occhi s’illuminano. Le labbra di uno di loro mormorano quei due termini inusitati, “amigdala” e “Acheuleano”. Era la mia prima lezione di Storia dell’Arte. Prima come insegnante. Loro, erano un piccolo gruppo di anziani. Pensionati da cui, alla fine, sono stato io ad imparare. Subito, in quella prima occasione, mi hanno fatto capire come apprendere, in fondo, significhi ampliare il proprio lessico. Qualcosa di cui ho tenuto conto nel seguito di quel corso. In ogni lezione cercavo di insegnare loro qualche termine nuovo, cose come “transetto” o “gargolla” se si parlava di cattedrali. Parole affascinanti ai loro occhi e importanti perché consentono precisione e concisione. Tutto questo per dire che non ho nulla contro l’uso di un linguaggio specialistico. Se si è tra specialisti, però. Ricordando che a ogni parola insolita sottoponiamo a un piccolo esame i nostri ascoltatori o lettori. E che nessuno vuole essere bocciato. Per giunta, resto convinto che si possa parlare di qualunque argomento con i termini che useremmo tra amici, al Bar dello Sport. Magari usando tre parole al posto di una; magari introducendo qualche termine nuovo, ma solo dopo averlo spiegato. Per giunta, da montanaro, ho sempre dei sospetti nei confronti di chi ricorre a un linguaggio troppo forbito. Temo di essere fregato, certo, come se mi trovassi davanti ad un Azzeccagarbugli. Soprattutto, ho l’impressione che il mio interlocutore voglia nascondere, dietro il velo di qualche parolone, la propria ignoranza. Per restare con Manzoni, avete presente Don Abbondio e il suo latinorum? Ecco, ho la sensazione di avere a che fare con un suo simile; non con un intellettuale, ma con un incompetente. Sensazione che ritrovo, in questi giorni, leggendo i commenti al risultato elettorale di tanti politologi di più o meno chiara fama. In particolare di quelli impegnati in una rivalutazione a posteriori del M5S. Dai “nuovi modi della post-politica” alle “forme reticolari superamento di quella partito” non si arriva solo alla “politicizzazione collettiva grazie alle tecnologie mediali”. Spandendo nell’aria l’incenso maleolente di un pessimo italiano, ci si genuflette e si intona il peana al vincitore. In attesa di salire sul suo carro come da tradizione nazionale. Antica. Antichissima. Forse risalente all'Acheuleano.


venerdì 9 marzo 2018

“Se c’è una costante nella Storia d’Italia

è rappresentata dai Venditori di Pentole, dagli imbonitori un tanto al chilo, da chi la spara più grossa per un pugno di voti. La cosa straordinaria è che gli italiani ci cascano sempre. L’esperienza non li vaccina.” Belle queste righe, vero? Profetiche, verrebbe da dire, considerando che risalgono a quatto anni fa. L’autore? Eddai, lo avete già immaginato: Beppe “The Mighty Megaphone” Grillo. Ce l’aveva con Renzi, con “Renzie”, anzi, e gli ottanta Euro in busta paga che aveva promesso. Ottanta Euro che poi sono arrivati. Renzi che era all’inizio di quella campagna di dileggio che ha portato alla sua mostrificazione. Alt! Tu, non scuotere la testa. Renzi è certo criticabile. Ho scritto peste e corna di alcune sue scelte. In questi quattro anni, però, è stato trasformato nel responsabile unico dei mali nazionali, il che è tragico. O quanto meno fa pensare malissimo della memoria di chi è tornato a votare Lega. Ma scusate l’inciso. Piuttosto credo sia interessante dirvi come ho scoperto quello scritto: cercando “le scarpe di Achille Lauro”. E già: cita anche quelle il Megafono, come esempio di acquisto del consenso. Avete presente? Achille Lauro, armatore, già consigliere della Camera Nazionale dei Fasci e poi Senatore del Partito Monarchico e del Movimento Sociale. Senatore che, per farsi eleggere dai napoletani, prometteva paia di scarpe. Meglio, che faceva consegnare ai potenziali elettori la scarpa sinistra, prima che andassero alle urne, e poi la destra, ma solo in caso di avvenuta elezione. Achille Lauro a cui il nostro linguaggio politico deve, appunto, il termine “laurismo”. Una parola cui ho pensato leggendo dei baresi già in fila per chiedere il reddito di cittadinanza. Lo so, lo so, la notizia pare sia stata esagerata, ma che tanti si aspettino di passare all’incasso solo perché “Grillo ha vinto” credo sia vero. E’ certamente è vero, dai commenti che leggo in Rete, che molti credono si tratti di un reddito per cui basta essere cittadini e non, come di fatto si tratta, di un’integrazione / sussidio di disoccupazione come c’è quasi ovunque, in Europa. Una misura per certi versi doverosa e per altri già prefigurata dal “reddito d’inclusione”, ma che al momento nessuno sa davvero come finanziare e che, parliamoci chiaro, è stata spacciata per altro. Questo non significa che si possa già accusare il M5S di “neolaurismo”. Non mi pare neppure il caso, però, di attribuire la sua vittoria ad altro che agli errori degli sconfitti (che certo ci sono stati) e ad una campagna pubblicitaria di straordinaria efficacia. Il Megafono, dopo tutto, parlava di “Venditori di Pentole”. Quanto ai misteriosi “nuovi modi della politica” sui cui molti invitano a riflettere, li lascio individuare a chi è già salito sul carro del vincitore. Nella mia semplicità, e ancora di più dopo aver letto lo scritto del Guru, mi pare di avere di fronte qualcosa di stra-visto: del vecchio ciarpame che è stato rispolverato e che è stato infilato in un pacco tutto nuovo. Per amore dell’Italia, spero davvero e tanto di sbagliarmi.

giovedì 8 marzo 2018

Concisione e chiarezza?

Cercatele altrove. In testa ho solo dubbi. E confusione. Non so neppure cosa augurarmi. Parlo del governo, chiaro. Spero solo non si arrivi a un'alleanza tra M5S e Lega. Sarebbe la fine. Dell'Italia e dell'Europa. Penso che la Lega sia la barbarie. Semplicemente la barbarie. Che propugni valori e abbia una visione del mondo contrari a quelli della civiltà occidentale. Penso che un M5S disposto a governare con lei avrebbe finalmente scelto di definirsi, ma lo avrebbe fatto nel peggior modo possibile. Diventando null'altro dei uno dei tanti partiti nazionalsocialisti che minacciano di precipitare il continente verso la catastrofe. Un M5S che, però, è ancora il nulla. Che potrebbe diventare di tutto. Anche una positiva forza di rinnovamento. Una potenzialità, che rende tutto ancora più complicato. Solo mi è chiaro che al PD, come partito, converrebbe restarsene all'opposizione. Il potere logora chi non ce l'ha? Frase di Andreotti che vale per il potere gestito alla Andreotti; usato per comprare altro potere grazie a fiumi di denaro pubblico. Fiumi che, però, ora non ci sono. Potere che, oggi, comporta decisioni difficili. E di scontentare sempre qualcuno. No: per recuperare consensi meglio stare all'opposizione, promettere tutto e il contrario di tutto, ed evitare di esporsi. Esiste, però, anche l'Italia. Un'Italia che senza follie, solo con quelle riforme che attende da decenni, potrebbe davvero farcela. Che se riuscisse anche a restituire un po' di potere d'acquisto ai salari potrebbe trovarsi in pieno boom economico. Potenzialità. Ancora. L'altra parola chiave è rischio. Enorme. Quello di fallire nel giro di poche settimane se spaventiamo i mercati. Non piacciono? Ci sono. Bisogna tenerne conto. Ci sono, ci devono prestare i soldi per tirare avanti e vanno rassicurati. E il modo migliore per NON farlo, è minacciare iniziative spericolate. Potenzialità e rischi che, sommati, quasi imporrebbero al PD di governare, se glie n'è data la possibilità. Chiarendolo al potenziale alleato. Capendo che non c'è proprio nulla da guadagnare. Di certo, almeno inizialmente, neppure il sostegno dei propri elettori. Una scelta difficile che, non illudendomi di essere uno statista, sono contento tocchi ad altri. Mentre da una parte ricordo il consiglio di Baltasar Gratian: "Non aprire la porta al minore dei mali perché da quello spiraglio ne entreranno di peggiori." Mentre dall'altra mi rendo conto di tutto quello che vi ho scritto.

mercoledì 7 marzo 2018

Non c’è stata l’onda nera,

scrive qualcuno, commentando gli insuccessi di CasaPound e Forza Nuova, mentre molti già si preparano ad accogliere i nuovi padroni. Si sa, da noi non mancano mai gli zerbini. Forse, però, è solo voglia di essere ottimisti; di trattare in modo normale quel che, comunque, non è normale. Il libro da leggere, una volta di più, è “La ribellione delle masse”. Manuel Ortega Y Gassett lo pubblicò nel 1930. Resta fondamentale per comprendere l’ascesa dei totalitarismi. Dei fascismi visti, appunto, come ribellione delle masse travolte da una crisi economica e deluse dalla modernità. Illuminante, in particolare, la definizione che Ortega Y Gassett dà del carattere fascista: quello di chi “è ignorante e fiero della propria ignoranza”. Fascisti che, se descritti così, sono ovunque in questa Italia ignorante come non mai. Che non legge, come sempre. Che non guarda più nemmeno i telegiornali. Incapace di capire anche i termini più elementari dell’economia; convinta che la ricchezza si possa generare con trucchi contabili. Un’Italia vittima dei populismi; che ripete ossessiva battute e slogan messi in Rete da chissà chi. (E già: da chi?) Un’Italia carnefice, che sorride con l’arroganza degli stolti. Cinica. A cui nessuno la racconta. Che non è nata ieri, ma è pronta a bersi le più incredibili panzane. Priva di strumenti critici, senza la minima cultura scientifica e, stando alle statistiche, popolata da analfabeti di ritorno. Ignoranti che, però, dicono la loro su tutto. Perché uno vale uno. Perché tutte le opinioni hanno lo stesso valore. E qualcosa orecchiato al bar vale quel che gli altri hanno imparato in una vita di studio e lavoro. Altri che sono diventati orride elite. Anche se insegnano per uno stipendio che è quello che è. Anche se scrivono su un giornale per uno stipendio che non c’è. Elite colpevoli di sapere. Il cui crimine è la ragione. Quella che si oppone alla propaganda dominante. Martellante. Onnipresente. Una propaganda che trasforma la feroce cleptocrazia mussoliniana in una specie di età dell’oro. Che dimentica come siano stati i governi del pentapartito a fare esplodere il debito pubblico. Che non ricorda come i leghisti e Berlusconi abbiano condotto il paese sull’orlo della rovina. Come lo abbiamo guidato fin lì e poi siano scappati indecorosamente. Leghisti screditati dalla propria storia. Il cui successo, in particolare, non ha nulla a che vedere con quel che sarebbe lecito attendersi in una democrazia. Reso possibile solo dalla narrazione di un’Italia invasa da milioni di africani e in preda alla criminalità che è quasi il contrario di quella reale; del sonnolento paese che, per le statistiche, in questi decenni è diventato uno dei più sicuri al mondo. Ma si tratta di numeri. E l’ignorante fiero della propria ignoranza li odia. Li odia come odia la realtà. Come non ama la libertà perché non sopporta la responsabilità. Responsabilità da cui fugge rifugiandosi nel sogno. Nel delirio romano-imperiale, quasi cent’anni fa. Nell’illusione sovranista, oggi. In uno strano sovranismo per conto terzi (e prima o poi sapremo dei suoi manovratori) che del fascismo non sembra aver conservato né il volto né i modi, ma che è profondamente fascista nell’anima.

martedì 6 marzo 2018

O te ne vai o non mangi.


Perché non c’è lavoro e se c’è è per gli amici degli amici. Credo ci sia questo, non misteriose considerazioni filosofiche, dietro il voto del Mezzogiorno. Un voto che non credo possa essere accomunato a quello preoccupato, isterico, ma in fondo satollo, dei leghisti lombardo-veneti. Uso quel “credo” perché ammetto ignoranza: conosco il Sud da turista, che è come dire che non lo conosco. I numeri, però, parlano da soli. Disoccupazione altissima. Pil pro capite che è poco più della metà della media europea. Tutti gli indicatori sociali che segnano rosso, con un bambino su sei che vive in condizioni di assoluta povertà. Se fossi un giovane calabrese o siciliano, non sarebbe servito altro a farmi venire la tentazione di votare Cinque Stelle. Anche se il candidato del mio collegio non fosse stato un premio Nobel. Semplicemente per esasperazione. Per tentare di uscire da un tunnel infinito di clientelismo e corruzione. Un tunnel, sarebbe meglio che ammettessimo, fatto anche di tanta sinistra; di troppi amministratori locali che hanno dato cattiva prova di sé. Colpevoli della sconfitta quanto i capoccia nazionali. E’ un voto, quello del Sud, che pure lascia sperare. Se non altro, perché non può essere definito anti-europeo. Anzi, l’esatto contrario. I giovani meridionali sanno che le altre regioni povere dell’UE sono cresciute proprio grazie all’Europa. Sanno che cechi e slovacchi ora stanno meglio di loro; che ci sono regioni della Bulgaria, di un paese che un decennio fa era secondo mondo, che sono diventate più ricche delle loro sfruttando i fondi di sviluppo europeo. Proprio quei fondi, e si parla di decine di miliardi, che la classe politica meridionale ha fin qui sperperato. Che spesso non è neppure riuscita a usare perché incapace di presentare progetti. Una classe politica squalificata, da cambiare al più presto. Anche a sinistra. Un’Europa usata come spauracchio e capro espiatorio da pessimi politici d’ogni colore, ma che i giovani meridionali vogliono. Vogliono eccome, con buona pace di Le Pen, Farrage, Putin e compagnia. Agli eletti del M5S, ora, il compito di non tradire questo desiderio; il dovere di non usare il voto dei meridionali per scopi che non hanno nulla a che vedere con lo sviluppo del Sud. Speriamo vigili su di loro, dimostrando finalmente onestà e rigore, chi potrà ricostruirsi restando all’opposizione.

lunedì 5 marzo 2018

Mutazione antropologica.


Cambio di paradigma. Il successo di M5S e Lega sta facendo scrivere cose del genere. E che si inaugura una nuova epoca. E che la sinistra ha davanti decenni di opposizione. Cose che leggo e che mi lasciano perplesso. Non ho la minima pretesa di conoscere il futuro. Ricordo il passato però. Ricordo che nel 1936, dopo la conquista dell'impero, l'Italia era diventata quasi totalmente fascista. I fuoriusciti italiani in Francia, addirittura, scrissero una lettera di congratulazioni a Mussolini. Tra i pochi che non la firmarono, perché uno con quel carattere non poteva certo farlo, ci fu Sandro Pertini. 
Italia tutta fascista nel 1936, ma fascismo già in crisi di consensi nel 1940, alla vigilia dell'entrata in guerra. Che aveva avuto un ritorno di popolarità, anzi, proprio per aver fatto qualcosa di così poco "fascista" come restarsene, fin lì, fuori dal confitto. Questo, senza neppure voler dire di quel che accadde cinque anni dopo, il 25 aprile. Non vorrei portasse male, visto quel che accadde prima, e in fondo non serve. Per capire quanto poco durino le svolte epocali nel nostro paese, basta guardare a quel che è successo al PD e al suo segretario in questi ultimi e pochi anni.  Una constatazione cui mi permetto di aggiungere un consiglio. Prima di salire sul carro del vincitore, magari affettando improvvise folgorazioni e fulminee intuizioni di una realtà dipinta per tutta nuova, controllate bene: potrebbe essere pieno di sterco.


venerdì 2 marzo 2018

Sono stanco.

Stanco come tutti di questa surreale campagna elettorale. E come tutti mi sento derubato. Meloni avvolta nel tricolore. Salvini in deriva mistica con una mano sul Vangelo. Le teste rasate dei loro amichetti, con le simil-svastiche e i saluti romani. Tutti assieme ci hanno portato via la politica. L’arte del governo che, prima di tutto, richiede la definizione di una polis comune. L’arte del possibile, secondo un vecchio tedesco con i baffoni, che richiede un sano realismo. Il senso di una realtà che già Berlusconi aveva trasformato anacronistico delirio. Ricordate come vinse le sue prime elezioni? Ergendosi a baluardo contro l’avanzare dei bolscevichi. Roba da 1954? Era il 1994. Meloni, Salvini e i loro camerati stanno facendo ancora meglio. Hanno sequestrato la politica scovando argomenti ancora più viscerali; sfruttando pregiudizi ancora più profondi. Si rivolgono a un paese invaso da milioni di africani e in preda alla criminalità che esiste solo nei loro racconti. Blaterano di sicurezza e immigrazione. Si guardano bene dallo sfiorare i problemi reali. Salari. Giustizia civile. Burocrazia. Nella loro Italia, tornata tutta bianca e tutta cattolica (anzi catto-padana) poi cosa accadrà? Tacciono. Perché sono gli eredi di partiti che hanno quasi portato il paese alla catastrofe? Perché hanno capito che scegliere, decidere, fare politica nel più proprio dei sensi, fa perdere consensi. Meglio additare capri espiatori e spacciare illusioni. Darsi alla pata-politica: all’arte di proporre soluzioni irrealistiche a problemi immaginari. E sproloquiare. Di “razza” e “difesa dall’Islam” e dei “meriti” del fascismo. E provocare. Sempre. Fino a farci scendere al loro livello. Fino a farci reagire con altre battute alle loro battute e a ridurre la nostra “sfera pubblica” al palcoscenico di una farsa. Mentre le loro cavolate dominano le prime pagine. Mentre i loro sostenitori invadono la Rete con commenti sempre e solo distruttivi. Sognando vai a sapere cosa. Forse una riedizione dell’Albania di Hoxha, lontana dall’Europa, isolata dal mondo e con le casematte sulle spiagge per fermare i migranti. Non un’utopia, ma una distopia, tra l’Ungheria di Orban (bello il selfie, Giorgia, complimenti ...) e la Russia di Putin. Una prospettiva che rende assurde le divisioni dentro la metà (temo scarsa) del paese che si ancora si sente cittadina della polis disegnata dai Costituenti. Divisioni che mi hanno fatto cadere le braccia e stancato più d’ogni altra cosa. Che andranno superate e cui non voglio contribuire in nessun modo. Neppure con un appello elettorale, per giunta inutile. Chi mi legge, appartiene comunque a quella che chiamo “l’area della decenza”. Una decenza che spero solo basti, questo sì, a farlo andare a votare. Malgrado la stanchezza. Nonostante la politica sia ancora rinchiusa da qualche parte.