mercoledì 30 maggio 2018

"Il debito pubblico

che un potere dispotico ha contratto per perpetuarsi deve essere considerato illegittimo. Non dovrebbe essere ripagato dai cittadini, ma dalle élite che lo hanno voluto e creato”. Questo, suppergiù, insegnava nel 1927 ai suoi studenti parigini Alexander Nahum Sachs, già ministro delle finanze dello zar Nicola II, divenuto professore di diritto. Una dottrina che, con i dovuti distinguo, si può applicare anche alla situazione Italiana. A un debito pubblico formatosi per la più parte durante gli anni '80, sì ad opera di governi democraticamente eletti, ma senza il minimo riguardo per le future generazioni. Approvato dai cittadini di allora (e il partito della spesa, e del debito, era ben più ampio delle maggioranze parlamentari) ma esclusivamente a proprio beneficio; servito solo in minima parte a finanziare investimenti di cui oggettivamente godano i cittadini di oggi, molti dei quali allora neppure nati, che sarebbero tenuti ad onorarlo.
Un debito creato per finanziare il voto di scambio e non, o solo in minima parte, per costruire scuole, ospedali o linee ferroviarie. Non basta. In un processo perverso, che offende qualunque senso di giustizia, tanta parte di quel debito è stato creato per concedere sconti fiscali, nella forma di una diffusa ed impunita evasione, proprio a quei ceti che ne hanno comprato la maggioranza dei titoli e, grazie ai loro interessi, rimpinguato i propri patrimoni.
Considerazioni analoghe, solo declinate secondo la realtà di quel paese, hanno portato alla nascita, in Francia, di centinaia di comitati locali del Collettivo per la revisione del debito, che ha il suo più autorevole portavoce in Jean Gadrey, già docente all'Università di Lilla; un economista che arriva a considerare illegittima anche quella parte di interessi dovuta ai rialzi dei tassi provocati da manovre puramente speculative.
Idee che, mentre ne vengono meno ben altri, fondati su ideali assai più alti e nobili, mettono in discussione i tabù della sacralità del debito e della fondamentale “giustizia” dei mercati. Tabù che dovrebbero esser messi da parte, anche dai più incalliti liberisti, in base a considerazioni di carattere squisitamente pratico.
I debiti pubblici dei paesi occidentali, compresa la Germania, che ne ha uno pari allo 83% del Pil e che supera di oltre 200 miliardi quello italiano, sono ormai tropo alti per non ritenere altro che una pia illusione l'idea che possano davvero essere ripagati. Davvero, senza l'utilizzo di politiche monetarie che di fatto li svalutino.
I tassi d'interesse sono ad un livello storicamente infimo, eppure gli stati, tutti, non solo l'Italia o la Spagna, fanno una gran fatica a far quadrare i conti. Le economie si riprenderanno? Aumenteranno anche i tassi, e quelli pagati sui titoli di stato potrebbero non essere tanto gentili da farlo assecondando il ritmo dell'economia. Pur con tutte le misure prese fin qui, è solo questione di tempo prima che ripeta uno tsunami come quello dell'autunno 2011. E non è affatto detto che vi possano di nuovo sopravvivere l'Euro, il sistema bancario e l'economia del continente.
Non si tratta di strillare un “non pagheremo” che creerebbe un'apocalisse finanziaria. Non si tratta neppure di ricorrere ad un'indiscriminata “monetarizzazione” del debito; di avviare le stampanti ed inondare il pianeta di Euro che diventerebbero subito carta straccia. Devono, i governi europei, sedersi attorno ad un tavolo per trovare una via d'uscita comune ad un problema che è di tutti, anche dei paesi più virtuosi. Una soluzione difficile, che non potrà ridursi ad una sola misura, ma che difficilmente potrà prescindere da una radicale ridefinizione del ruolo della BCE.
Levata di mezzo qualunque remora moralistica, il risultato di una trattativa a viso aperto tra i paesi più in difficoltà, che dovranno dimostrare di volersi liberare, oltre che di una parte del debito, delle inefficienze dei loro sistemi, eredità dei governi che quello stesso debito hanno creato (sì, alcuni compitini dovranno comunque essere fatti), e paesi che gli stessi problemi hanno in minor misura, ma che non possono sostenere che le colpe dei padri e dei nonni debbano ricadere su figli e nipoti. Un concetto su cui i tedeschi, proprio i tedeschi, dovrebbero essere i primi ad essere d'accordo.
P.S. Ho scritto questo articolo quattro anni fa. Questo è ancora quel che penso del problema del debito. Sembro un grillino? No. Non accuso l^Europa di un bel niente e non mi sogno di minacciare sfracelli. Esprimo delle ragioni, come spero faccia, prima o poi, qualche nostro rappresentante. Con i dovuti modi e nelle dovute sedi.

domenica 27 maggio 2018

Caro signor Fleischauer,


lei è un maledetto cretino. E’ la terza volta che glielo scrivo. La prima fu per quei suoi apprezzamenti sul nostro carattere nazionale dopo l’affondamento della Concordia. Poi glielo scrissi quando fu scoperto il mondo truffaldino con cui il gruppo Wolkswagen aggirava le leggi sul controllo delle emissioni. Allora cercai di strusciarle il muso sulla cacca, se mi permette una metafora all’altezza delle sue. Le scrissi che se fossi stato un cretino come lei avrei accusato “i tedeschi” di essere dei truffatori. Invece, continuavo, per me i tedeschi restavano ottanta milioni di cittadini dell’UE, alcuni ottimi e alcuni pessimi, ognuno con le sue responsabilità. A essere truffatori, eventualmente, se riconosciuti per tali dai tribunali, erano solo i dirigenti WV. E lei, comunque, rimaneva un cretino. Un cretino che però, ora, sta diventando pericoloso. Per l’Italia, la Germania e l’Europa. Cretino pericoloso lei e una pericolosa cretinata il suo articolo per lo Spiegel. Lei è un razzista, parliamoci chiaro. Libero di esserlo in privato; non ci sono leggi contro i razzisti come non ce ne sono contro i cretini. Quando riversa la sua bile sulla tastiera, però, fa danni enormi. In questo momento il mio paese sta per essere governato dal proprio peggio. Capita. In America sta capitando; a voi è successo l’altro ieri. Articoli come il suo fanno solo il gioco di questo peggio. Fanno passare l’idea di una Germania e di un’Europa prevenute contro l’Italia. Addirittura responsabili del nostro disastro. Un’idiozia, considerato che l’Europa ci ha offerto un quarto di secolo d’interessi bassissimi che avrebbero dovuto permetterci di risanare i nostri conti? Vero. E un’idiozia doppia considerato che arriva dal capo di un partito che, con il suo federalismo alla padana, è stato il principale responsabile dell’esplosione della nostra spesa pubblica tra il 1997 e il 2011 (più sessanta per cento; altro che tagli ...). Purtroppo, però, anche noi abbiamo i nostri idioti e ne abbiamo tanti. Tra loro anche i commentatori che rispondono alle sua accuse contro “gli italiani” con altre contro “i tedeschi”. Tedeschi cui, invece, non credo vada ricordata la storia. Che penso sappiano benissimo quanto sia ingiusto incriminare tutto un popolo per le colpe di pochi (anche se quei pochi erano qualche milione, neh ...). Piuttosto darei a lei, ai miei connazionali che ragionano come lei, e a tutti i vari nazional-razzisti dei bei fucili con delle lunghe baionette. Poi vi porterei su un’isola deserte e vi lascerei lì, a sbudellarvi a vicenda, mentre noi, con tutti i nostri limiti, cerchiamo di continuare a costruire l’Europa. I vecchietti come me e la ragazza spagnola e il ragazzo danese che fregandosene di lei, di Salvini e di qualunque pregiudizio, magari proprio in questo momento stanno facendo l’amore. Ragazzi che i confini li stanno abbattendo a letto e che della vita hanno capito tutto quello che lei non capirà mai. 
Non perché lei sia tedesco, ci mancherebbe. 
Solo perché è un cretino. 
Sempre il solito cretino.

sabato 26 maggio 2018

La gente vuole, diceva il Bandana.

I nuovi fazzolettini gialloverdi (nuovi? Salvini è in politica da 25 anni ...) parlano addirittura in nome del popolo. Del popolo che “vorrebbe”. Con molta sicumera (ma che ne sapete delle aspirazioni di tanti che sono popolo almeno quanto i vostri elettori?) e tanta confusione. Basta scorrere i punti del “contratto” per capirlo. Meno tasse e più spese, senza curarsi del bilancio, perché il popolo “vuole” così. Senza tener conto, però della differenza tra “volontà di tutti” e “volontà generale”. Due termini introdotti solo da Rousseau, ma facilmente comprensibili. La “volontà di tutti” è quel che chiunque desidera quando pensa solo a se stesso e all’immediato. “Tutti” vorrebbero pagare meno tasse. Anzi, non vorrebbero pagarne per niente. “Tutti” vorrebbero andare in pensione prima, magari al compimento della maggiore età. La “volontà generale”, invece, è quella dei cittadini che non guardano solo al proprio ombelico e al presente. Avere strade, scuole e ospedali è “volontà generale”, come è “volontà generale” che si paghino le tasse necessarie a mantenerli. Una “volontà generale” che certo definisce un popolo più dell’etnia o della lingua, ma che proprio i nostri populisti preferiscono ignorare. Perché nasce dalla ragione, e non dalle viscere. Perché soddisfarla non si traduce subito in un consenso come quello che hanno appena conquistato. Assai ampio, anche secondo i sondaggi, rende di nuovo attuale pure un altro dei temi già cari al Bandana. Il risultato, anzi, della diseducazione civica operata negli anni dalle sue tivù: la convinzione che la democrazia consista nello strapotere della maggioranza. Nulla di più sbagliato. Nell'Italia del ‘36 quasi tutti erano favorevoli al regime, come quasi tutti erano nazisti nella Germania di allora o comunisti nell'Unione Sovietica stalinista. Tre casi in cui governava chi, eletto o no, aveva il sostegno della maggioranza. Governava con potere assoluto, però, è proprio per questo era un dittatore. La democrazia, infatti, è altro. È l’insieme delle regole che frenano il potere dei più perché siano rispettati i diritti delle minoranze. Regole, fissate nel marmo delle Costituzioni, che hanno anche un altro scopo. Quello d’inserire l’operato dei governi, transitori come le fortune elettorali, in progetti di portata storica che leghino tra loro le generazioni e saldino le nazioni. Qualcosa che dovrebbe capire anche chi ora sventola il tricolore, magari dopo aver scoperto un tardivo amore per l’Italia. Un paese creato dai millenni e una Repubblica che non si fonda sui moti intestinali, ma sulle pietre posate dai suoi Padri. Qualche loro nome? Einaudi, Giolitti, De Gasperi, Saragat, La Malfa, Togliatti, Nenni, La Pira, Foa, Dossetti, Terracini, Parri, Bobbio, Lombardi, Croce e, certo, Pertini. Meglio ricordarli prima che qualcuno, in questo tempo analfabeta, li includa tra le odiate elite. Magari per poi, in nome del “popolo”, destinare al rogo il loro capolavoro.

martedì 22 maggio 2018

Lo vogliono gli italiani.

Il sessanta per cento di loro, secondo i sondaggi, è favorevole al nuovo governo . Il suo presidente del Consiglio? Nessuno sa davvero chi sia. Tutti, però, sembrano conoscerne il  programma. Folle. Per certi versi vergognoso. Meno tasse, più spese e troveremo là fuori qualcuno cui far pagare il conto. Una specie di grande scaricabarile nazionale. Impossibile da realizzare. Che porterà quasi certamente alla fine dell’Europa e precipiterà il paese nel dramma. Che ci farà fare la fine della Grecia, ma solo se saremo molto, molto fortunati. Una discesa negli inferi tra gli applausi. In una tarda primavera che me ne ricorda altre. Altri momenti di follia collettiva. Il 9 maggio 1936. Con una tipica guerra d’aggressione, usando aviazione e gas contro un esercito armato di fucili, sì, ma di poco altro, abbiamo appena conquistato l’Etiopia. L’età coloniale è stra-finita. Le altre potenze europee, Inghilterra in testa, stanno pensando a come ritirarsi da imperi che ormai costa troppo mantenere quando Mussolini ne proclama uno. Per la gioia degli italiani. Di quasi tutti. Anche degli antifascisti. Tra le poche eccezioni, il giovane Pertini. Perché ha il carattere che ha. Perché ragiona. Come troppo italiani continuano a non fare il 10 giugno 1940. Altro discorso del duce. Piazza Venezia sempre gremita di una folla entusiasta. Si entra in guerra. Una guerra finta, sanno tutti. Contro una Francia già sconfitta e un’Inghilterra che firmerà la pace a giorni. Non ci sentiamo forti. Non per davvero. Ci sentiamo furbi. Furbissimi. Siamo ridicoli, come il pollo che si siede al tavolo da poker convinto d’avere a che fare con degli imbranati e si ritrova spennato. Ridicoli come siamo stati un decennio fa. La data? Otto maggio 2008. Si insedia il quarto governo Berlusconi. Lui racconta barzellette. L’elenco dei suoi ministri potrebbe esserne una. Ci va bene così, però, nonostante non si capisca in cosa speriamo. Forse nello stellone. Di certo siamo vittime di una campagna di disinformazione simile a quella di questi giorni. Siamo felici di esserci liberati di Prodi, ridicolizzata “faccia di mortadella”, demoniaco “affamatore di pensionati”. Uso la seconda persona plurale per non chiamarmi fuori. Perché non sono né leghista né grillino. Non tutti la pensavamo così. Anche in quel caso, a volere il nuovo governo, secondo i sondaggi era il sessanta per cento di noi. Un governo che nel giro di poco più di tre anni ci avrebbe condotto a un passo dalla catastrofe. Un passo che forse compiremo già nelle prossime settimane. Magari sotto gli ombrelloni di ferragosto. Una profezia delle più facili, se si è conservato l’uso della ragione. Se ci si è rassegnati a essere minoranza. Senza il minimo orgoglio. Con la disperazione nel cuore. E la certezza che quando gli italiani si trasformano in massa plaudente si avviano sempre verso la propria distruzione.
P.S. Non sono un profeta. So solo che finirà con la vittoria di russi e americani. Basta ricordare la storia e il poco latino necessario a chiedersi “cui prodest”?
P.P.S. Non sono un profeta, ma so benissimo che dopo non riusciremo a trovare un solo leghista o grillino. Dopo, quando avvieremo la ricostruzione. Spero tutti assieme. Spero, finalmente, avendo imparato qualcosa.

domenica 20 maggio 2018

L’Onorevole e il famoso giornalista

sono lì, faccia a faccia, sullo schermo. Un programma contenitore della domenica pomeriggio, allora famoso. Papà e io stiamo aspettando la partenza del Gran Premio. Lui è già malato. Forse per quello, da qualche tempo mi parla più del solito, quasi volesse lasciarmi un’eredità fatta anche di parole. “Vedi,” mi dice, “tutto dipende dalla vocazione”.

Io lo guardo perplesso. A proposito di “vocazione”, qualche giorno fa mi ha augurato di trovare la mia, ma non capisco ora cosa c’entri.
“Se ne hanno una sincera, quelli come loro, non importa che idee abbiano, tengono assieme una comunità”, mi spiega, “se invece fingono solo di averne una, se non credono in quello che fanno, distruggono un paese.”

venerdì 18 maggio 2018

Sono solo venditori di fumo e giocatori di tre tavolette.

Capaci di imbonire. Furbi, ma senza la minima fiducia nell’Italia. Convinti che sia in grado di sopravvivere solo grazie a trucchi contabili. Un paese di cui non sanno nulla. “Siamo mediterranei”, ha più o meno detto il Megafono, “con un’economia come quella Greca”. Ma quando mai? Siamo il secondo paese esportatore e la seconda potenza industriale dell’UE; di fatto più simile alla Germania della stessa Francia. Abbiamo mille problemi, ma tutti interni, come dimostra la bilancia dei pagamenti, e che per essere risolti hanno solo bisogno di riforme interne. Riforme, penso sempre a quella della giustizia civile che, però, nessuno ha mai avviato (certo: non si possono scomodare centinaia di migliaia di potenziali elettori) e che non sembrano interessare gli infimi dioscuri del “nuovo”. Le loro prime idee in materia d’economia? Una barzelletta. “Gigi, ti ricordi quei mille Euro che mi hai prestato? Ecco, te ne vorrei ridare novecento, e non escludo di farlo usando i soldi del Monopoli. Capito? Bene, ora mi presteresti altri cento Euro? No? Come no? Ma allora è un complotto!” Baggianate che berranno solo i loro elettori. Così vecchi. Decrepiti. Fermi ai nostri anni ’80 e al loro scellerato patto sociale. Libera evasione fiscale per far contenti i ceti produttivi; pletore di assunzioni nel pubblico impiego e pensioni come se piovesse per tener buoni tutti gli altri. Risultato, anche senza tirare in ballo tangenti e appalti? Burocrazia elefantiaca, sistema previdenziale insostenibile e devastazione dei conti pubblici: nel 1992 siamo arrivati a un passo dal fallimento e dal vedere la Lira ridotta a carta straccia. Esito da ricordare a chi pensa che si possa tornare a quel modello di (sotto) sviluppo. Cittadini “col trucco”, vogliosi di una libertà senza responsabilità. Per cui lo stato, se da una parte ha ogni colpa, dall’altra può tutto. In questo perfetti residuati del ventennio, avanzi del CAF e discepoli di Tremonti. Sicuri che bastino la maschia volontà del duce o un po’ di “creatività” contabile per generare ricchezza. Cittadini che, come tutti i truffati, sono in fondo complici dei propri truffatori. Di una genia di politicanti nuovi solo nei modi atroci e per il resto affetti da arteriosclerosi precoce. Urlatori che hanno torto anche quando potrebbero aver ragione. Il debito pubblico pesa anche su Francia e Spagna. Una sua riduzione, con conseguente svalutazione dell’Euro (che finirebbe per essere pagata da tutti gli europei) dovrebbe essere considerata. Una questione, però, da discutere nei dovuti modi, dando prova di dignità e serietà. Mi viene in mente De Gasperi a Parigi nel 1946. Davvero con le pezze al culo, volando su un residuato bellico, andò a presentare le ragioni di un grande paese. Sconfitto, in macerie, ma sempre un grande paese. L’Italia e non la miserabile e berciante repubblica bananiera che un branco di guitti, già capaci di fare danni miliardari solo con i loro sproloqui, pensa di dover governare.

giovedì 17 maggio 2018

“Ogni ascesa del fascismo

reca testimonianza di una rivoluzione fallita;” scriveva Benjamin. Resta vero nell’Italia del 2018. La rivoluzione che non ha dato frutti, o che ne ha dato di pessimi, nel nostro caso è stata quella di Mani Pulite. Avrebbe potuto essere una vera liberazione, un ritorno della Repubblica alle proprie origini. Lo sarebbe stata, forse, se con l’acqua sporca della partitocrazia non avessimo gettato anche i partiti; se non ci fossimo sbarazzati, oltre che dei dirigenti corrotti, degli ideali che innervavano il nostro dibattito politico. Per un paio di decenni è sopravvissuta solo una generica opposizione destra – sinistra; opposizione peraltro falsa perché fondata, proprio dalla destra, su premesse ormai scadute, risalenti a una Guerra Fredda che era già finita ovunque tranne che per Berlusconi e i suoi elettori. Ora non resta più neppure quella. Il liberalesimo è pressoché estinto; il comunismo è ridotto a posizioni di testimonianza. Il PD e FI, le uniche forze di una qualche consistenza che possano più o meno essere ricondotte alla tradizione, sono sulla difensiva. Il resto, un resto assolutamente maggioritario, è fascismo. Magari ignaro, magari inconsapevole, ma fascismo. Né di destra (o di una destra sociale) né di sinistra, proprio come il fascismo che si vedeva come terza posizione. Gonfio di retorica populista e di un nazionalismo distruttivo. La stessa cara ai grillini (la definizione fascista dell’Italia come “grande proletaria” potrebbe essere loro). Lo stesso agitato dalla nuova Lega. “Gli stranieri non ci amano” potrebbe essere uno slogan dei leghisti che alle mussoliniane “perfida Albione” e “iniqua Marianna” hanno sostituito l’Europa causa di tutti i mali. Il tutto condito dai soliti pregiudizi anti-intellettuali (le odiate elite ...) e dalla condanna di tutta la politica precedente la fondazione del proprio salvifico movimento (la kasta). Del fascismo tardo, quello che aveva scambiato il bacio della morte con il nazismo, c’è anche il razzismo. Negato, magari, ma con scarsissima convinzione. Nei fatti rivendicato da Salvini (basti pensare alla campagna per l’elezione del governatore lombardo) e lasciato abilmente intuire da Grillo (cercate in rete le sue dichiarazioni, per esempio, su romeni e tunisini). Del fascismo ci sono state anche le minacce, contro politici, giudici e giornalisti, ma manca ancora l’aperta violenza. Svastiche e camicie nere, invece, marciano già per le nostre città. Sotto lo sguardo compiaciuto di Salvini. Mentre il sacro Megafono, tra una strusciatina e l’altra con CasaPound, ripete “l’antifascismo non ci compete”.

lunedì 14 maggio 2018

Patria.

Un termine che scrivo sempre con la maiuscola e quasi sempre riferendomi all’Italia. La Patria del mio cuore, viscerale, per cui mi emoziono e a volte vorrei piangere. Una Patria che, da buon italiano, sento come una Mamma. Magari non sempre perfetta, ma sempre e comunque la Mamma. Mi riconosco, però, anche in una Patria microscopica, fatta di rocce taglienti, neve, lastre di ghiaccio e prati spelacchiati dal gelo. Una Patria in cui non sono nato e non ho mai vissuto, ma che è la terra dove affondano le mie radici. E’ la mia culla, se volete, odorosa del fieno tagliato sotto il sole d’agosto nel ricordo delle vacanze infinite che passavo con i nonni. Poi c’è casa mia: l’Europa. Tutta: da Pantelleria (che ricordi ...) a Christiania; da Inisheer (ho pensato di andarci a vivere) a Ferenczvaros (dove ho vissuto). Un’Europa che è la mia dimensione spirituale; che definisce la mia cultura. Una grande Patria che è anche il risultato di un’educazione, certo, ma che è vera e sentita quanto le altre. Nessuno mi chieda di rinunciarvi. Sono europeo esattamente quanto sono italiano: fino al midollo. Piuttosto, devo ancora crescere. Voglio completare quell'educazione e arrivare a sentire come Patria tutto il mondo. Perché siamo tutti a bordo di quest’astronave sempre più piccola lanciata tra le stelle. Perché un africano o un cinese ridono e piangono proprio come noi. Non ci sono ancora. Non fino in fondo. Ci arriverò. Parafrasando le parole di un poeta mio amico, un giorno voglio poter dire, ai nipoti che spero d’avere: “Sono campanilista come ogni italiano, ma il mio campanile si chiama umanità.”

venerdì 11 maggio 2018

Siamo perdendo la Repubblica.

Non la seconda o terza. L’unica che abbiamo: quella nata dalla Resistenza, costata davvero lacrime e sangue. Ce la stiamo lasciando scippare e con lei l’idea di un’Europa unita dove non si potessero ripetere i massacri del Novecento. Secolo cui stiamo tornando. Non breve, come lo definiva uno storico che pure tanto ammiro, ma lunghissimo. Il secolo della nostra autodistruzione. L’età dei nazionalismi e dei fascismi che ormai sono riemersi. Finanziati dai nemici dell’Occidente, pare quasi certo. Pronti a essere braccio armato dei nuovi populismi. Il peggio della nostra storia a braccetto con il peggio della nostra cronaca. I giornali come clessidre. Notizie che gocciolano a scandire i secondi che mancano alla mezzanotte. La giunta leghista di Rho che pensa di festeggiare il 25 Aprile facendo sfilare un reparto di pseudo - SS. L’assessora regionale lombarda, eletta per meriti sciistici, che vaneggia di un “fascismo buono”. La giunta destrissima di Genova che manda un proprio rappresentante, eletto con Fratelli d’Italia, a una cerimonia commemorativa dei caduti repubblichini. Con la fascia tricolore delle occasioni ufficiali. Confondendo la pietà dovuta ai morti di ogni parte, quando non responsabili di crimini efferati, con i doveri istituzionali. Blandendo gli eredi di Salò, mentre interi quartieri della capitale sono in mani mafiose. Feudi di una criminalità che fa anche politica. Vicina a CasaPound, pare; vicina al M5S, pareva pure. M5S che ha ancora per portavoce, o per padrone, un pregiudicato che andava dicendo “l’antifascismo non mi compete”. Se non colluso pronto a colludere. Mo’vi mento che ha stravinto in Sicilia, riuscendo nel miracolo di fare campagna elettorale da quelle parti senza mai usare la parola mafia. Pronto a governare con una Lega ormai contigua al neo-fascismo, che a dir poco ignora le infiltrazioni della ndrangheta in Lombardia e raccoglie sorprendenti consensi in Calabria. Solo voci. Sospetti. Palese, invece, la compagnia di disinformazione di questi anni. La riscrittura della storia con la sinistra fatta diventare colpevole d’ogni male. Negando la realtà a colpi di “tanto sono tutti uguali” e grazie ad assurde equivalenze morali. Un vago sospetto di bustarella, a volte neppure quello, considerato più grave della negazione dell’Olocausto. Dando uno stranissimo significato alla parola onestà. Dimenticando la storia personale del comico chissà come entrato nella Rai più lottizzata. Dimenticando i 40 o 50 milioni di Euro di rimborsi elettorali fatti sparire dalla Lega e i disastri del berlusconismo. Lotofagi illusi da un nuovo che è solo distruzione di quel che i nostri padri hanno costruito. Con un apparato ideologico e un programma economico di stretta derivazione bananiera. Senza nessun coerente progetto. Usurpando la buona fede dei tanti convinti di avere trovato i propri vendicatori, ma ancora una volta destinati a pagare il prezzo di tutto. Come sempre e senza sconti.

giovedì 10 maggio 2018

Leggo che te ne sei andato e mi prende la vertigine.

Un turbine d’immagini e ricordi. Il volto di Massimo Troisi. Chissà se eravate amici? Tu, Ermanno Olmi, bergamasco dal nome longobardo, e lui napoletano. Uniti dalla fede nell'umanità. Nella possibilità di comunicare di là della parola, con gesti senza tempo e sguardi che sono di ogni cultura. Poi arrivano gli occhioni del mio fratellino nel buio di un cinema parrocchiale. Avrà avuto cinque o sei anni. Lui bambino ed io ragazzino, soli davanti al tuo capolavoro. Stregati, perlomeno lo ero io, dal tuo modo di vedere il mondo. Dal tuo sguardo. Dalla tua poesia. Termine abusato, però. Ambiguo. Penso ai poveri felici dei quadri del Todeschini, pittore settecentesco che lavorava proprio dalle tue parti. Penso ai villani danzanti delle opere dei bamboccianti, emuli di Peter Van Laer attivi nella Roma del Seicento. Immagini perfettamente reazionarie. Descrizioni fantasiose del mondo contadino prodotte per lenire i sensi di colpa dei privilegiati. Simili alla nostalgia del passato affettata da tanti che, ora, non saprebbero restare mezza giornata senza telefonino. Ecco, la tua poesia non aveva niente a che vedere con tutto questo. Era quella dei piedi sporchi e gonfi di quel pellegrino adorante dipinto da Caravaggio, in fondo un altro bergamasco. Poesia della realtà, la sua. Fatta di veri ricordi, la tua. Altro che fiaba, come ho appena letto in un coccodrillo. L’eco delle testimonianze di nonni e bisnonni; la rappresentazione di una povertà affamata lontana da noi solo un paio di generazioni. La voce di Luigi. Il suo italiano, cristallino, con le parole scelte e scandite come fa solo chi parla una lingua che ama, ma ha dovuto studiare. Il dolore che ancora risuona, sessant’anni dopo, quando mi racconta della cuginetta morta di pellagra nelle campagne venete. Luigi, con il naso importante, gli zigomi altissimi e tutte le rughe della vecchiaia. Forse avresti fatto un attore anche di lui: un altro personaggio nella tua narrazione lirica della memoria di un popolo. Un vero e proprio poema epico, perché questo è "L'albero degli zoccoli", cui tutti stanno facendo omaggio, come alle altre tue opere. Tutti, anche i tanti, proprio nella nostra Lombardia, che devono averlo travisato. Anche i troppi che non capiscono chi ci sia su quel carretto che si allontana nell’alba livida, alla fine del film. Non solo i fittavoli espulsi dal latifondista. Chiunque debba lasciare la propria casa, con la fame a mordere lo stomaco e l’ansia a serrare la gola e far di vetro gli occhi. Chiunque. Anche se si chiama Fatima o Amir, ha la pelle nera e, a bordo di un barcone, può solo prendere la strada del mare.

martedì 8 maggio 2018

Ascoltate il vecchio Sigmund e lasciate perdere il resto.


Sì: bisogna tornare al padre della psicanalisi per capire i dioscuri del nostro nazional-populismo. Forse governeranno assieme. Nel frattempo sono tornati in campagna elettorale. Rivolgendosi al popolo, come sempre e come è bene notare. Non ai cittadini. Non agli elettori che esprimono con il voto un’informata opinione, come da definizione di liberal-democrazia, ma a una massa indifferenziata e irriflessiva che non sa e non vuole sapere. 
Il paese ha gravi problemi. Verissimo. Le origini di questi, però, risalgono perlomeno agli anni ’80. A uno sviluppo modesto (rispetto ai decenni precedenti) finanziato con un’esplosione del debito pubblico. A scelte sbagliate come l’abolizione della scala mobile. Levata quella, gli stipendi si sono costantemente ridotti, in termini reali, provocando quella contrazione del mercato interno che è la causa prima della nostra crisi. Salari bassi che, per giunta, non attirano investimenti. La ragione? L’inefficienza della burocrazia, prima ancora che la corruzione della politica. Soprattutto, dice l’Ocse, una giustizia civile che è la più lenta al mondo. Una palla al piede di un’economia che trova ossigeno solo nelle esportazioni. Sì, perché l’Italia è comunque un marchio di successo, sui mercati mondiali. Sì, perché nel 2017 abbiamo venduto merci all’estero per un valore di 450 miliardi, con un attivo di oltre 50 della bilancia commerciale. Numeri che ribadiscono come i nostri problemi siano quasi tutti solo interni. Risolvibili, ma solo scomodando un paese refrattario ai cambiamenti. Abitato da conservatori, quando non da reazionari. Sono loro a trovare irresistibili le sirene leghiste e grilline. Pronti a scatenarsi contro gli immigrati, anche se nell’ultimo anno ne sono arrivati 100.000 in meno rispetto all’anno precedente. Anche se nel 2017 l’Italia ha concesso asilo a un gran totale di 30.000 rifugiati; un decimo di quelli accolti in Germania. Pronti a credere, nonostante quei dati dell’export, che basterebbe lasciare l’Euro per tornare a crescere. Sempre alla ricerca di assoluzioni, prima che di soluzioni. Di certo, poco o nulla interessati alla realtà. Lo hanno capito Salvini e Grillo, supremi spacciatori di favolette. Nuovi imbonitori di menzogne antiche. Quelle, appunto, di cui scriveva Sigmund Freud in queste sue righe. Tenete a mente che sono del 1921 e leggetele: “Le masse non hanno mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare. L'irreale ha costantemente in esse la precedenza sul reale, soggiacciono all'influsso di ciò che non è vero quasi altrettanto che a quello di ciò che è vero. Hanno l'evidente tendenza a non fare alcuna distinzione tra i due.” 
No, l’era delle fake news non è cominciata ieri. 
I “popoli” disposti a farsi menare per il naso ci sono sempre stati.

domenica 6 maggio 2018

Nove versi di PPP per questi tempi.

Un ripiano della mia libreria è tutto per te, Pier Paolo. Ci sono i tuoi romanzi, i tuoi scritti e le tue lettere. Ci sono anche tutte le tue poesie. Le mie compagne di tante sere. Poesie come le note dei tasti neri del pianoforte, quelle nella lingua di tua madre, che mi toccano il cuore con dita di nostalgia. Poesie scabre come le rocce di un deserto, quelle che la mia mano è andata a cercare l’altra notte. Scritte nella solitudine, non posso che immaginarti solo. Profetiche. Quelle della tua raccolta “Poesia in forma di rosa”. Figlie del loro tempo. Sembrano scritte per il nostro. Ho riempito quel volumetto dei foglietti che uso come segnalibro. Troppi, troppi versi memorabili. Tra loro alcuni, di “La Guinea”, che però devo riportare. Semplicemente, devo,
L'intelligenza non avrà mai peso, mai, 
nel giudizio di questa pubblica opinione. 
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da una dei milioni d'anime della nostra nazione, 
un giudizio netto, interamente indignato: 
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato 
da secoli, la cui soave saggezza 
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.

Vorrei che li leggessero i militi del fascio-leghismo. I revisori e ri-scrittori della nostra storia. I troppi elettori a moralità limitata e a memoria ridotta. Gli eterni reazionari. Pronti a sacrificare il capro espiatorio, a mettere sul rogo la strega e l’untore. Pronti a tutto pur di non cambiare nulla. Sempre in cerca di un’assoluzione collettiva. Coraggiosi nello scagliarsi contro l’infimo e il remoto. Contro il rifugiato mezzo morto di fame o i sempre nebulosi, mai specificati, poteri forti. Servi d’ogni padrone, nella realtà. Inginocchiati per un posto in regione, per continuare a non pagare le tasse o per i soldi di un lucroso appalto. Vorrei che leggessero quei versi e capissero. Parlano di loro, e sono del 1962. Li denudano. Li rivelano per quello che sono. Non l’avanzare del nuovo. Neppure il ritorno del vecchio.. La polvere sottile che da sempre vela la nostra società. La morchia perennemente infilata negli ingranaggi delle nostre istituzioni. Non la feccia che risale il pozzo. La feccia che, in realtà, in fondo al pozzo non è mai tornata.
P.S. Non vorrei che il termine fascio-leghismo creasse confusione. Non penso che la Lega sia una prosecuzione del fascismo. Tra mito del sangue e idoli pagani, l’immaginario leghista resta di stretta derivazione nazista.

sabato 5 maggio 2018

Se passerete una serata con degli italiani,

avverto sempre gli amici stranieri che non ci conoscono, li sentirete inevitabilmente parlare malissimo del proprio paese. Non commettete l’errore di dar loro ragione. Anzi, non criticate minimamente l’Italia; non ve lo perdonerebbero mai. Non siete italiani e a voi è solo consentito ammirare la culla della civiltà, la terra di Roma e del Rinascimento, il più bel paese del mondo. Noi italiani, continuo a spiegare, siamo nazionalisti come gli americani. Forse anche più di loro. Nazionalisti, ma a modo nostro. Non sventoliamo in continuazione la nostra bandiera. Non ripetiamo a tutti di essere i migliori. Facciamo l’esatto contrario. Diciamo di fare schifo, ma, questo è il punto da capire, qualunque altro paese per una ragione o per l’altra ci fa schifo più del nostro. Se volete, non ci vediamo come i migliori, ma come i meno peggio del pianeta, che all’atto pratico è la stessa cosa. Di solito concludo questo discorsetto, che ho ripetuto per davvero più volte, con un’ultima considerazione. Per i tedeschi la Germania è l’Heimat. Per i francesi la Francia è la Patrie. Per noi italiani, l’Italia è semplicemente la Mamma. Noi, i suoi figli, possiamo dirne peste e corna. Ma che nessun’altro si azzardi a farlo.