giovedì 10 maggio 2018

Leggo che te ne sei andato e mi prende la vertigine.

Un turbine d’immagini e ricordi. Il volto di Massimo Troisi. Chissà se eravate amici? Tu, Ermanno Olmi, bergamasco dal nome longobardo, e lui napoletano. Uniti dalla fede nell'umanità. Nella possibilità di comunicare di là della parola, con gesti senza tempo e sguardi che sono di ogni cultura. Poi arrivano gli occhioni del mio fratellino nel buio di un cinema parrocchiale. Avrà avuto cinque o sei anni. Lui bambino ed io ragazzino, soli davanti al tuo capolavoro. Stregati, perlomeno lo ero io, dal tuo modo di vedere il mondo. Dal tuo sguardo. Dalla tua poesia. Termine abusato, però. Ambiguo. Penso ai poveri felici dei quadri del Todeschini, pittore settecentesco che lavorava proprio dalle tue parti. Penso ai villani danzanti delle opere dei bamboccianti, emuli di Peter Van Laer attivi nella Roma del Seicento. Immagini perfettamente reazionarie. Descrizioni fantasiose del mondo contadino prodotte per lenire i sensi di colpa dei privilegiati. Simili alla nostalgia del passato affettata da tanti che, ora, non saprebbero restare mezza giornata senza telefonino. Ecco, la tua poesia non aveva niente a che vedere con tutto questo. Era quella dei piedi sporchi e gonfi di quel pellegrino adorante dipinto da Caravaggio, in fondo un altro bergamasco. Poesia della realtà, la sua. Fatta di veri ricordi, la tua. Altro che fiaba, come ho appena letto in un coccodrillo. L’eco delle testimonianze di nonni e bisnonni; la rappresentazione di una povertà affamata lontana da noi solo un paio di generazioni. La voce di Luigi. Il suo italiano, cristallino, con le parole scelte e scandite come fa solo chi parla una lingua che ama, ma ha dovuto studiare. Il dolore che ancora risuona, sessant’anni dopo, quando mi racconta della cuginetta morta di pellagra nelle campagne venete. Luigi, con il naso importante, gli zigomi altissimi e tutte le rughe della vecchiaia. Forse avresti fatto un attore anche di lui: un altro personaggio nella tua narrazione lirica della memoria di un popolo. Un vero e proprio poema epico, perché questo è "L'albero degli zoccoli", cui tutti stanno facendo omaggio, come alle altre tue opere. Tutti, anche i tanti, proprio nella nostra Lombardia, che devono averlo travisato. Anche i troppi che non capiscono chi ci sia su quel carretto che si allontana nell’alba livida, alla fine del film. Non solo i fittavoli espulsi dal latifondista. Chiunque debba lasciare la propria casa, con la fame a mordere lo stomaco e l’ansia a serrare la gola e far di vetro gli occhi. Chiunque. Anche se si chiama Fatima o Amir, ha la pelle nera e, a bordo di un barcone, può solo prendere la strada del mare.

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