lunedì 2 luglio 2018

Non cercate soluzioni ai problemi del nostro paese di dannati.

Quei problemi non interessano e siamo dannati proprio per questo. Noi e tutta Europa. Cerchiamo favole da raccontare. Sono tutto quello che importa nell’era della post-verità. Guardiamo alla Polonia. Senza stranieri ma ossessionata dai migranti che, da quelle parti, proprio non ci sono. Pensiamo alla Repubblica Ceca. Senza crisi, anzi in peno boom economico, ma dove avanzano le peggiori destre. E ora guardiamo a noi. Lasciamo perdere l’indegna gazzarra sui rifugiati; un tema su cui è diventato impossibile ragionare. Parliamo di sicurezza, invece. Sono di un paio di giorni fa i dati definiti del 2017. Ci sono stati 343 omicidi. La metà di quelli avvenuti nella sola città di Chicago. Un sesto di quelli che accadevano vent’anni fa. Un quindicesimo, forse un ventesimo, di quelli che avvenivano ogni anno nell’Italia fascista. In un’epoca tremenda anche dal punto di vista della criminalità, ma resa dorata dalla propaganda. Da quella vecchia e dalla nuova, fatta di pessimo giornalismo e mirata disinformazione. Non si uccide quasi più, sono in costante diminuzione i furti e, negli ultimi dieci anni, si sono dimezzate le rapine eppure i dannati hanno paura. Vogliono avere paura. Un’emozione forte nel grigiore di vite insopportabili. Consumo di superalcolici e di psicofarmaci: sono i dati che aiutano a capirli. Seguono preoccupati l’evolversi di un’epidemia in Indonesia ma non smettono di fumare. Si sono sentiti in prima linea durante la Guerra del Golfo. Li ricordate? Il fronte a 5000 chilometri e loro all’assalto dei supermercati in vista della più improbabile delle carestie. Basta poco a scatenare il panico. E’ facile il compito degli untori della paura. Un delitto nella provincia vicina e poco importa che l’Italia sia uno dei paesi più sicuri del mondo: legioni vorrebbero la pistola in casa. Per proteggere donne e bambini. Leoni di cartapesta convinti di diventare veri uomini con un chilo di ferro tra le mani. Mentre nessun bambino, credo, è stato vittima di un delitto nel 2017. Mentre quasi la metà delle 150 donne uccise l’anno scorso sono state ammazzate da mariti e fidanzati. Donne e bambini che, piuttosto, andrebbero protetti dai dannati con la pistola nel cassettone. Quelli che vorrebbero fare “come in America”. Tutti sceriffi e 30.000 (si: trentamila) morti per armi da fuoco ogni anno. Ancora un numero. Rapportati ai nostri 60 milioni di abitanti quei morti diventerebbero almeno 5.000. Un altro ragionamento. Proprio quello che non serve per scalfire le certezze di chi ha bisogno di fiabe per sopravvivere. E di ricette miracolose. E di capri espiatori. Narrazioni, questa è la parola chiave, cui dobbiamo sostituirne altre. Positive. Propositive. In qualunque modo possibile. Tutto per non farci portare a fondo da quella che oggi, forse, è la grande maggioranza. Quella che i cinici operatori di borsa hanno sempre chiamato parco buoi. Da menare per il naso. Da portare al macello.

domenica 1 luglio 2018

Per fortuna ho creduto di dover morire.

Dodici anni fa. Niente di troppo grave: alla fine sono qui che vi scrivo. Solo tanta paura, prima. Poi, dopo notti insonni, una strana calma. Una quieta forza. E la decisione di lasciare la bella casa, il macchinone e il lavoro molto ben pagato. Tutto quel che all’improvviso mi è sembrato secondario. Semplicemente perché non potevo perdere altro tempo lontano dal mare e cercando d’essere quello che non ero. Secondo molti sono impazzito. Invece, ero maturato. Finalmente. Una nota personale che, forse, avrei potuto evitare citando un libro: “Essere e tempo”. Non credo di averlo davvero capito; di certo non tutto. E’ troppo densa la scrittura di Heidegger; mi fa venire il mal di testa. Un concetto, però, l’ho afferrato. Proprio per aver vissuto quei momenti. Prima o poi si raggiunge quella che Heidegger chiama “età della deiezione”. (Sì, fa un po’ ridere quel termine ...). Un’età in cui ci spogliamo del superfluo per concentrarci sull’Essere. Sull’essenziale, se volete. Un momento che arriva quando la fine di tutto smette di essere una vaga idea per diventare una certezza di cui resta ignota solo l’ora. Quando ci dobbiamo confrontare con quella che Heidegger definisce “la possibilità della mancanza di possibilità”. Qualcosa di molto simile alla fase storica che stiamo vivendo. Mentre contempliamo la possibilità della fine della democrazia e la sua deriva verso un autoritarismo che di democratico conserva solo la forma. Mente assistiamo alla trasformazione dell’Europa in una somma di rancorosi nazionalismi. A una generazione, al massimo, dall’abisso. Una visione che rende assurdo esitare oltre. Non fatemi torto. Non chiedetevi quale capo o capetto della sinistra abbia in mente. Per me sono solo nomi. Non penso neppure alla sola sinistra. Ricordo i nostri padri e nonni. Quello che fecero nel 1943, anche loro davanti alla “mancanza di possibilità”. Rimasero comunisti o cattolici, liberali o socialisti, ma trovarono il modo di lottare assieme. Di restare uniti fino ad avviare una ricostruzione più facile, per molti versi, di quella che ci aspetta. Mentre sono in rovina anche le categorie del vero e del giusto. Mentre vanno ricreate le condizioni minime per fare politica. La ragione ultima per cui spero, alle prossime elezioni, se e quando ci saranno, di poter votare per un nuovo CLN. Quale che sia il suo nome. Quali che siano i partiti che lo comporranno. Chiunque sia il suo candidato. Non una resa agli eventi ma, appunto, un atto di maturità. Doveroso, mentre troppi adolescenti mai cresciuti, tanto infantili da credere ancora alle favolette, continuano a sognare “l’uomo forte”.

sabato 16 giugno 2018

Siamo tutti ostaggi.

Italiani e francesi. Ormai anche i tedeschi. Tutti ostaggi di un “sovranismo” che spinge i singoli stati all’egoismo, che li fa richiudere in se stessi, salvo poi ululare all’inutilità dell’Europa; di quella stessa UE che fa di tutto per sabotare. Pensate al pessimo Macron. Pessimo non per quel che ha detto, ma per averlo detto proprio lui, che in tema di rifugiati si è comportato da perfetto leghista. Scelte vili, le sue, cui però è stato spinto dalla presenza nel suo paese di Marine Le Pen e del Front Nazionale; cui è stato forzato da un’opinione pubblica sobillata proprio dai comparucci di Salvini. Un tre-tavolettaro d’eccezione il nostro ministro degli Interni (con licenza d’occuparsi di tutto, ma proprio tutto). Ferocemente antitedesco l’altrieri (ma prima sognava una Padania satellite della Germania) fino a stamane era ovviamente in guerra contro l’iniqua Marianna e domani forse attaccherà la Spagna. I paesi con cui prendersela, però, in tema di rifugiati sono altri. Nel 2017 la Germania ne ha accolti mezzo milione (524.185). La Francia del già citato pessimo ha comunque garantito asilo a 110.945 persone. Noi, invasi da milioni (in realtà sui barconi sono arrivati 119.247 ) abbiamo finito per dare asilo a 78.235 rifugiati. Subito dopo di noi, nella classifica dell’accoglienza, arriva la feroce Austria. Feroce ma che ha dato asilo, piccola com’è, a 56.285 persone. A non fare quasi niente sono proprio i paesi del gruppo di Visegrad cui Salvini vorrebbe accodare l’Italia. La Polonia, che non accetta rifugiati dal Nord Africa o dal Medio Oriente. L’Ungheria, che nel 2017 ha concesso asilo solo a un migliaio (1.216) di persone. Ungheria contro cui Salvini non dirà una sola parola. Anzi, che elogia. Governata da un altro dei suoi beniamini, Viktor Orbán. Idee da anni trenta (quelle idee) e solo quel minimo di rispetto delle forme democratiche ancora necessario di questi tempi. Un altro “sovranista. Anche lui, come tutti gli altri, impegnato ad erodere le fondamenta dell’UE. Con politiche che sembrano strettamente coordinate tra loro. Quasi là fuori un grande regista avesse organizzato il sequestro di tutto un continente.

mercoledì 13 giugno 2018

Cari amici grillini e lontani,

prima di farvi fagocitare dal fascio-leghismo, venite a fare un giro con me. Cominciamo da Brescia. Secondo le statistiche è una delle città italiane con più stranieri. Andandoci si ha quell’impressione. Resta bianchissima, non la si potrebbe confondere con una città inglese o francese, ma certamente si vedono parecchi neri. Per i bresciani, però, non sono un problema. Non così grande, abbiamo visto, da far loro scegliere un sindaco leghista. Poi andiamo nelle valli bianco latte. Di neri, da quelle parti, quasi non ce ne sono. La gente, però, vota in massa per la Lega. Parla d’invasione e della necessità di fermare le orde africane. Qualcosa del genere si constata andando prima a Milano, che non è Parigi o Londra ma nelle cui strade vedrete anche gente di colore, e poi nella mia Brianza dove ci sono decisamente meno stranieri. Nella metropoli la Lega non sfonda; dalle mie parti i leghisti sono maggioranza. Iniziate a sospettare qualcosa? Visitare l’Ungheria o la Polonia dovrebbe bastarvi. Quasi nessun nero o islamico, eppure popolazioni pronte a votare a destrissima; per chi promette di proteggere la cristianità di quelle terre assediate da va a sapere chi. Mentalità d’assedio che ha poco a che vedere con la geografia. Ultima fermata la California. Il Carotone gioca allo statista con l’amichetto coreano, ma laggiù ha preso una scoppola. In quello stato l’invasione messicana c’è davvero. Si sente parlare spagnolo ovunque. Nessuno, però, si sogna d’invocare il muro, e il candidato repubblicano, nel primo turno per l’elezione di un senatore tenutasi pochi giorni fa, ha racimolato la miseria dell’8 (otto) %. I più trumpiani, spaventati dai messicani “stupratori”, vivono nel mezzo dell’America, dove di forestieri se ne vedono pochi. Capito, ora? Non è il numero degli stranieri a produrre insofferenza. Quasi il contrario. Dove ce ne sono pochi, dove si può vivere senza avere a che fare con loro, prevalgono i pregiudizi, rinforzati dalla pessima predicazione dei Salvini locali. Dove sono più numerosi, dove inevitabilmente finiscono per diventare vicini di casa e colleghi, si arriva a scoprire che sono semplicemente altri esseri umani, né più né meno di noi. Bene. Detto questo, piantatela di ripetere “sono troppi”, “la gente non ce la fa più”, “bisogna dire basta” e tutte le altre baggianate, contrarie a ogni evidenza statistica, della propaganda leghista. Ricordatevi che a livello nazionale gli stranieri, per la maggioranza romeni e albanesi, rappresentato solo l’8, 3% della popolazione, mentre a Brescia sono quasi il 19%, e tornate a ragionare. Vi lascio complimentandomi per l’attenzione che dedicate ai migranti pur sapendo che per la loro accoglienza spendiamo un misero 0,3% del Pil. Posso solo immaginare quanto vi impegnerete quando si tratterà di affrontare i problemi veri del paese. Prima o poi. Quando e se Salvini ve ne darà il permesso.

martedì 12 giugno 2018

Il viaggio del transatlantico Saint Louis.

Ne ho già scritto, ma non posso fare a meno di ripensarci. Salpò da Amburgo il 13 maggio 1939 con a bordo 930 ebrei in fuga dalla Germania nazista. Oggi li chiameremmo rifugiati. Richiedenti un asilo che fu loro negato dalle autorità cubane, statunitensi, canadesi, inglesi .... Nei vari paesi in cui la nave attraccò fu consentito di sbarcare solo a piccoli gruppi di passeggeri. Alla fine rimasero a bordo in 620 che dovettero tornare in Europa. Solo ottantasette di loro riuscirono a lasciarla di nuovo prima dello scoppio della guerra. Più di duecentocinquanta dei restanti morirono nei campi di stermino. Una tragedia minore dentro quella immane dell’Olocausto e, nel contempo, una macchia indelebile per l’onore (scusate se uso questo termine antiquato) dei governi che decisero di lasciare quegli uomini e quelle donne al loro destino. Fatte le debite proporzioni, oggi è accaduto qualcosa di simile. Ringraziamo pure la Spagna che accoglierà i 629 a bordo dell’Acquarius. Non festeggiamo, però. Non c’è proprio nulla da festeggiare. Il nostro ministro degli Interni, con alle spalle un partito votato sì e no dal 13% degli aventi diritto, ha compiuto una scelta che si può difendere solo chiamando in causa la discutibile categoria del conveniente, ma senza riguardo a quelle del giusto, del doveroso e dell’umano. Il viaggio dell’Acquarius non finirà nel dramma. Per noi italiani, tutti, resta la vergogna. Oggi non abbiamo dimostrato all’Europa e al mondo la nostra forza. Guidati da chi fino all’altrieri diceva di non riconoscersi nella nostra bandiera, abbiamo esibito tracotanti il volto sfigurato di un paese ormai senz’anima. Accompagnato dai cori beceri sollevati in rete da un razzismo ignobile, il più disgustoso dei nostri ritratti.

lunedì 11 giugno 2018

Salvini blocca i porti, voi esultate

e io potrei inondarvi di cifre. Mostrarvi una volta di più come siamo tra gli europei che hanno accolto meno rifugiati. Un quinto dei tedeschi, un decimo degli svedesi e molti meno anche dei “feroci” austriaci, rispetto alla popolazione. Potrei mostrarvi anche altre statistiche: come non ci siano quasi più rapine e siano in diminuzione anche i furti. Potrei ricordavi che l’anno scorso abbiamo avuto 350 omicidi, un sesto di quelli che avvenivano nell’Italia in cui siamo cresciuti e meno di un decimo di quelli cui assistevano ogni anno i nostri nonni, quando c’era lui. Preferisco dirvi del giornale della mia provincia. La Provincia, appunto. Un paio d’anni fa intervenne il prefetto, con una lettera aperta, perché la smettesse di strillare titoli isterici mentre il numero dei reati raggiungeva il suo minimo storico. Strilli che però continuano e sono arrivati al ridicolo. Rubata una bicicletta, titolava oggi. Sissignore: quel furto neo-realista è stato l’unico fatto “di cronaca nera” nel fine settimana di quasi un milione di abitanti. Questo e, non me lo invento, due “avvistamenti di ladri”. Persone che si aggiravano con fare sospetto. Va a sapere a giudizio di chi. Persone cui domani si potrà sparare, magari, grazie alla nuova legge sulla legittima difesa. Nuova e doverosa, immagino, per fornire qualche morto vero alle prime pagine. Non troppo diversa, nello spirito, dalle ultime iniziative del Carotone. Lasciamo stare le figuracce al G7, dove pare se ne andasse in giro seguito da uno scodinzolante italiano, un certo Conte, a me del tutto sconosciuto. Parliamo della sua nuova guerra contro il Canada. Guerra commerciale, s‘intende. Fatta di dazi su acciaio e alluminio per assurdi motivi di “sicurezza nazionale”: come se il Canada stesse per attaccare gli USA. Dazi privi di senso anche perché il Canada è il solo paese, o quasi, con cui la bilancia commerciale statunitense sia in attivo. Dietro la decisione di Trump, levata la sua personale antipatia nei confronti del primo ministro Trudeau, così sfacciatamente giovane e in forma, ci sono solo necessità di sceneggiatura. Quelle di una politica ridotta a reality che ha bisogno di continui colpi di scena per mantenere una base, un’audience, la cui unità richiede sempre nuovi nemici. Anche i più improbabili. Detto questo, vi lascio. Magari mentre sorridete dei disinformati elettori del Mid West, pieni di pregiudizi contro i canadesi (quasi socialisti e per giunta mezzo francesi) senza averne mai incontrato uno. Ricordate solo che proprio loro, magari ritrovandosi senza lavoro a causa di quei dazi, finiranno per pagare il prezzo del narcisismo trumpiano. Ora continuate pure ad ululare alla Rete la vostra felicità per quei seicento che forse non sbarcheranno da noi. Poveri disperati. Loro su quella nave e voi, sempre menati per il naso, eterna carne da cannone, davanti alle tastiere.

sabato 9 giugno 2018

Populisti. Populisti.

Siete addirittura orgogliosi di essere chiamati così. Quando per capire poco basta niente. Pensate che sia populista chi fa gli interessi del popolo? Ma bravi. E chi decide chi è popolo e chi non lo è? Quelli come me, a cui fate orrore, non sono parte del popolo quanto vuoi? E quegli interessi, chi li stabilisce? E come? Non cercate di rispondere. Lo ha fatto per voi il nostro primo populista, il modello originale, Benito Mussolini, duce non per volontà della nazione, ma perché incarnazione della nazione. Perché imbevuto dello spirito di un popolo fatto a sua immagine e somiglianza. La cui opinione coincideva, per definizione, con la sua. Per questo le elezioni non servivano. Erano solo “ludi democratici” per spregevoli borghesi, amici della perfida Albione e dell’iniqua Marianna. L’Italia, la “grande proletaria”, si esprimeva nelle piazze. Era solo quella che riempiva quelle piazze. Ragionamenti dannatamente simili ai vostri. Anche voi pensate di essere tutto il paese; di essere il solo paese che conta. Sempre insofferenti di chi non la pensa come vuoi, subito bollato come elitario appartenente alla kasta, se non come traditore della Patria. Sempre smaniosi di fare un falò della democrazia liberale, con quei suoi tempi così lunghi e con tutte quelle ridondanti garanzie. Siete anche convinti che la maggioranza debba potere tutto e alla minoranza non resti che subire. Anzi, basta leggere certi commenti in rete, che debba sparire. Vi manca solo un capo/totem in cui riconoscervi, ma forse vi farete bastare Salvini. Per il resto sembrate pronti a indossare l’orbace o qualcosa che gli somiglia.

venerdì 8 giugno 2018

Non sarò mai un nazionalista.

Nossignore. Perché amo l’Italia. Davvero. Con tutto il cuore e tutta. Perché è il paese più bello del mondo? Semplicemente perché è il mio paese. Poi posso dire che ha una storia unica. Che è stato un faro di civiltà, quasi senza interruzioni, per due millenni abbondanti. In fondo non è troppo difficile se si è infilati nel cuore del Mediterraneo e del mondo antico? Vero, ma è andata così. Nessuna idealizzazione, però. La amo con tutte le sue contraddizioni. O per la sua infinita diversità, che è un altro modo di vedere la stessa cosa. Per le sue tante lingue; per le mille facce della sua gente. La amo perché non riducibile a una formula, a uno slogan. Perché è unita, ma non ha un’identità tribale. E’ tenuta assieme da radici profondissime, ma che a volte solo un occhio esperto sa riconoscere. Per spiegarla agli stranieri, la paragono all’India. L’Italia, dico loro, è un sub-continente in cui troverete di tutto. Proprio di tutto. Con questo non mi sogno di affermare che sia in qualche modo superiore ad altri paesi. La amo, appunto, e quel che si ama è fuori categoria. Le classifiche, invece, sono il pane dei nazionalisti. Dei malati di un morbo che, da quando ha cominciato a diffondersi, dai “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte in poi, c’è già costato due guerre mondiali e decine di milioni di morti. Nazionalisti orgogliosi del proprio paese come di un oggetto posseduto. Incapaci di definirsi se non confrontandosi/scontrandosi con altri nazionalisti. Infantili, nella migliore delle ipotesi. Ottusi, nella pretesa di ridurre la complessità alla monotona ripetizione di sé stessi. Guardate ai nazionalisti di casa nostra. Bianchi, etero, più o meno cattolici (ma il papa che c’è adesso, si sa, è un mezzo comunista) pretenderebbero di essere modello obbligatorio per il resto della nostra società; di essere gli unici “veri italiani”. Veri e, ovviamente, almeno a parole, pronti a scontrarsi con austriaci o finlandesi veri come loro; con altri nazionalisti altrettanto ottusi. Il tutto condito da truci rivendicazioni di primato e continui piagnistei vittimistici. Lamentele rivelatrici. Nuove versioni dell’eterno “all’estero non ci amano” che raccontano di pregiudizi e ignoranza. Di gente che all’estero ci è andata al massimo in vacanza. Pronta a ripetere che “i francesi hanno la puzza sotto il naso” o che “si sa come sono fatti gli inglesi” senza mai aver conosciuto un francese o un inglese. Un’ignoranza che almeno in parte li assolve. Non sono dei mostri, ma la carne da cannone manovrata da quei farabutti di cui scriveva Samuel Johnson. Dai furbastri, se non altro. Da capipopolo che si ammantano ora nel tricolore con cui fino a ieri si pulivano il didietro. Da tribuni della plebe che in realtà amano talmente poco l’Italia da non rispettarne la lingua nazionale. Un italiano che non arrivano a parlare neppure decentemente. Di cui abusano nel ripetere le loro continue cavolate.

lunedì 4 giugno 2018

Stai zitto,

mi ingiunge una feroce leghista. Stai zitto e rispetta un governo finalmente nato dalla volontà popolare. Lei commenta così una delle mie pillole. Io penso a tanti miei amici grillini e mi cadono le braccia. Amici che ora tacciono. Alcuni, pochissimi, stanno ripensando il proprio rapporto con il Mo’ vi mento (ma quanto vi mento). La maggioranza, si arrampica sui vetri. Cerca scuse, ma non riesce a nascondere il proprio imbarazzo. Hanno votato Cinque Stelle partendo da sinistra. Spesso convinti di votare per la “vera sinistra”. Scoprono di aver contribuito a far nascere il governo più di destra della storia repubblicana. Un governo leghista e nero che è stato creato a tavolino. Frutto di lunghe e laboriose trattative. Nato nel palazzo, come quelli che l’hanno preceduto. Un governo che non ha nulla a che vedere con le scelte dei cittadini. Questo se non si vuole procedere all’ennesima riscrittura della storia. Se non si vuole continuare a violentare la memoria. Lega e M5S si sono presentati alle elezioni da avversari, non da alleati. Di Maio, il pessimo Di Maio, starnazzava “mai con la Lega”. Tanti italiani, se per caso, hanno votato in base a queste premesse e promesse. E di certo senza sapere, o neppure immaginare, che il loro futuro presidente del Consiglio sarebbe stato Conte, lo sconosciutissimo Conte. Altro che stare zitti, mentre la macchina della disinformazione leghista non smette di funzionare. Mentre Salvini è diventato padrone del paese pur essendo stato votato da meno del 13% degli aventi diritto. Grazie alla propria furbizia, non certo al volere degli elettori. Grazie a milioni di voti grillini che sono stati dirottati, trasbordati da sinistra all’estrema destra, in un’operazione che, conoscendo le simpatie del Megafono, sospetto sia stata premeditata. Senza il minimo rispetto di una volontà popolare che leghisti e grillini dovrebbero avere il pudore di non tirare in ballo. Non ora. Non dopo averla sequestrata.

venerdì 1 giugno 2018

Inno per la Festa della Repubblica

Cantato da coro o voce solista 
nel silenzio di una notte italiana

Giovanni Megna, Vito Allotta, Vincenzo La Fata, Giovanni Grifò, Lorenzo di Maggio, Francesco Vicari, Castrenza Intravaia, Giorgio Cusenza, Margherita Clesceri, Serafino Lasciari, Filippo di Salvo, Eriberto Volgger, Martino Cossu, Franco Petrucci, Armando Piva, Francesco Gentile, Mario Di Lecce, Olivio Dordi, Giovanni Arnoldi, Carlo Perego, Giulio China , Giovanni Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Glatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Vittorio Mocchi, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè, Rita Camicia, Rosa Fazzari, Adriana Vassallo, Letizia Palumbo, Nicoletta Mazzocchio, Andrea Gamgemi, Antonio Ferraro, Franco Dongiovanni, Donato Poveromo, Gabriella Bortolon, Giuseppe Panzino, Federico Masarin, Saida Bertolazzi, Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Clementina Calzari Trebeschi, Alberto Trebeschi, Eupio Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Vittorio Zambarda, Nicola Buffi, Maria Santina Carraro in Russo, Marco Russo, Nunzio Russo, Elena Celli, Elena Donatini, Tsugufumi Fukuda, Raffaella Garosi, Herbert Kontriner, Antidio Medaglia, Wilhelmus Jacobus Hanema, Silver Sirotti, Cinzia Andres, Luigi Andres, Francesco Baiamonte, Paola Bonati, Alberto Bonfietti, Alberto Bosco, Maria Vincenza Calderone ,Giuseppe Cammarota, Arnaldo Campanini, Antonio Candia, Antonella Cappellini, Giovanni Cerami, Maria Grazia Croce, Francesca D’Alfonso, Salvatore D’Alfonso, Sebastiano D’Alfonso, Michele Davì, Giuseppe Calogero De Ciccio, Rosa De Dominicis, Elvira De Lisi, Francesco Di Natale, Antonella Diodato, Giuseppe Diodato, Vincenzo Diodato, Giacomo Filippi, Enzo Fontana ,Vito Fontana, Carmela Fullone, Rosario Fullone, Vito Gallo, Domenico Gatti, Guelfo Gherardi, Antonino Greco, Berta Gruber, Andrea Guarano, Vincenzo Guardi, Giacomo Guerino, Graziella Guerra, Rita Guzzo, Giuseppe Lachina, Gaetano La Rocca, Paolo Licata, Maria Rosaria Liotta, Francesca Lupo, Giovanna Lupo, Giuseppe Manitta, Claudio Marchese, Daniela Marfisi, Tiziana Marfisi, Erica Mazzel, Rita Mazzel, Maria Assunta Mignani, Annino Molteni, Paolo Morici, Guglielmo Norritto, Lorenzo Ongari, Paola Papi, Alessandra Parisi, Carlo Parrinello, Francesca Parrinello, Anna Paola Pellicciani, Antonella Pinocchio, Giovanni Pinocchio, Gaetano Prestileo, Andrea Reina, Giulia Reina, Costanzo Ronchini, Marianna Siracusa, Maria Elena Speciale, Giuliana Superchi, Antonio Torres, Giulia Maria Concetta Tripliciano, Pierpaolo Ugolini, Daniela Valentini, Giuseppe Valenza, Massimo Venturi, Marco Volanti, Maria Volpe, Alessandro Zanetti, Emanuele Zanetti, Nicola Zanetti, Antonella Ceci, Angela Marino, Leo Luca Marino, Domenica Marino, Errica Frigerio in Diomede Fresa, Vito Diomede Fresa, Cesare Francesco Diomede Fresa, Anna Maria Bosio in Mauri, Carlo Mauri, Luca Mauri, Eckhardt Mader, Margret Rohrs in Mader, Khai Mader, Sonia Burri, Patrizia Messineo, Silvana Serravalli in Barbera, Manuela Gallon, Natalia Agostini in Gallon, Maria Antonella Trolese, Anna Maria Salvagnini in Trolese, Roberto De Marchi, Elisabetta Manea Ved. De Marchi, Eleonora Geraci in Vaccaro, Vittorio Vaccaro, Velia Carli in Lauro, Salvatore lauro, Paolo Zecchi, Viviana Bugamelli in Zecchi, Catherine Helen Mitchell, John Andrew Kolpinski, Angela Fresu, Maria Fresu, Loredana Molina in Sacrati, Angela Tarsi, Katia Bertasi, Mirella Fornasari, Euridia Bergianti, Nilla Natali, Franca Dall’Olio, Rita Verde, Flavia Casadei, Giuseppe Patruno, Rossella Marceddu, Davide Caprioli, Vito Ales, Iwao Sekiguchi, Brigitte Drouhard, Roberto Procelli, Mauro Alganon, Verdiana Bivona, Francesco Gomez Martinez, Mauro Di Vittorio, Sergio Secci, Roberto Gaiola, Angelo Priore, Onofrio Zappalà, Pio Carmine Remollino, Gaetano Roda, Mirco Castellaro, Nazzareo Basso, Vincenzo Petteni, Salvatore Seminara, Carla Gozzi, Umberto Lugli, Fausto Venturi, Argeo Bonora, Francesco Betti, Mario Sica, Pier Francesco Laurenti, Paolino Bianchi, Vincenzina Sala in Zanetti, Berta Ebner, Vincenzo Lanconelli, Lina Ferretti in Mannocci, Romeo Ruozi, Amorveno Marzagalli, Antonio Francesco Lascala, Rosina Barbaro in Montani, Irene Breton in Boudoban, Pietro Galassi, Lidia Olla in Cardillo, Maria Idria Avati, Antonio Montanari, Giovanbattista Altobelli, Anna Maria Brandi, Angela Calvanese in De Simone, Anna De Simone, Giovanni De Simone, Nicola De Simone, Susanna Cavalli, Lucia Cerrato, Pier Francesco Leoni, Luisella Matarazzo, Carmine Moccia, Valeria Moratello, Maria Luigia Morini , Federica Tagliatatela, Abramo Vastarella, Gioacchino Taglialatela, Giovanni Calabrò, Dario Capolicchio, Angela Fiume in Nencioni, Caterina Nencioni, Fabrizio Nencioni, Nadia Nencioni, Alessandro Ferrari, Carlo Locatena, Driss Moussafir, Sergio Pasotto, Stefano Picerno,
Di chi sono tutti quei nomi?
Delle vittime delle "nostre" stragi, da quella di Portella delle Ginestre, il primo maggio 1947, a quella di via Palestro, a Milano, la notte 27 luglio 1993. Nomi che idealmente si uniscono a quelli dei martiri della violenze nazi-fasciste; a quelli delle altre vittime del peggio del nostro passato. Nomi che si uniscono idealmente a quelli dei martiri della Resistenza e che ricordo ai miei amici ogni Due Giugno. Lo faccio anche quest’anno, mentre auguro loro una buona Festa della Repubblica. Celbrazione di una democrazia che abbiamo pagato con il sangue, prima e dopo il 1946. Festa che quest’anno, inutile nasconderlo, ha anche una sapore amaro. Mentre è responsabile degli Interni chi fino a ieri diceva di volersi pulire il didietro con il tricolore repubblicano. Mentre è diventato ministro (della Famiglia) un aperto ammiratore di Orban e di tutti i ducetti del peri-fascismo. In un momento della nostra storia che unisce il ridicolo al tragico. All’inizio di una notte che, comunque, passerà. A noi il compito di tenere una fiammella accesa fino ad allora. Con intatta fede. Uniti come i nostri padri e nonni. Come loro riuscirono ad esserlo, quando davvero serviva.

mercoledì 30 maggio 2018

"Il debito pubblico

che un potere dispotico ha contratto per perpetuarsi deve essere considerato illegittimo. Non dovrebbe essere ripagato dai cittadini, ma dalle élite che lo hanno voluto e creato”. Questo, suppergiù, insegnava nel 1927 ai suoi studenti parigini Alexander Nahum Sachs, già ministro delle finanze dello zar Nicola II, divenuto professore di diritto. Una dottrina che, con i dovuti distinguo, si può applicare anche alla situazione Italiana. A un debito pubblico formatosi per la più parte durante gli anni '80, sì ad opera di governi democraticamente eletti, ma senza il minimo riguardo per le future generazioni. Approvato dai cittadini di allora (e il partito della spesa, e del debito, era ben più ampio delle maggioranze parlamentari) ma esclusivamente a proprio beneficio; servito solo in minima parte a finanziare investimenti di cui oggettivamente godano i cittadini di oggi, molti dei quali allora neppure nati, che sarebbero tenuti ad onorarlo.
Un debito creato per finanziare il voto di scambio e non, o solo in minima parte, per costruire scuole, ospedali o linee ferroviarie. Non basta. In un processo perverso, che offende qualunque senso di giustizia, tanta parte di quel debito è stato creato per concedere sconti fiscali, nella forma di una diffusa ed impunita evasione, proprio a quei ceti che ne hanno comprato la maggioranza dei titoli e, grazie ai loro interessi, rimpinguato i propri patrimoni.
Considerazioni analoghe, solo declinate secondo la realtà di quel paese, hanno portato alla nascita, in Francia, di centinaia di comitati locali del Collettivo per la revisione del debito, che ha il suo più autorevole portavoce in Jean Gadrey, già docente all'Università di Lilla; un economista che arriva a considerare illegittima anche quella parte di interessi dovuta ai rialzi dei tassi provocati da manovre puramente speculative.
Idee che, mentre ne vengono meno ben altri, fondati su ideali assai più alti e nobili, mettono in discussione i tabù della sacralità del debito e della fondamentale “giustizia” dei mercati. Tabù che dovrebbero esser messi da parte, anche dai più incalliti liberisti, in base a considerazioni di carattere squisitamente pratico.
I debiti pubblici dei paesi occidentali, compresa la Germania, che ne ha uno pari allo 83% del Pil e che supera di oltre 200 miliardi quello italiano, sono ormai tropo alti per non ritenere altro che una pia illusione l'idea che possano davvero essere ripagati. Davvero, senza l'utilizzo di politiche monetarie che di fatto li svalutino.
I tassi d'interesse sono ad un livello storicamente infimo, eppure gli stati, tutti, non solo l'Italia o la Spagna, fanno una gran fatica a far quadrare i conti. Le economie si riprenderanno? Aumenteranno anche i tassi, e quelli pagati sui titoli di stato potrebbero non essere tanto gentili da farlo assecondando il ritmo dell'economia. Pur con tutte le misure prese fin qui, è solo questione di tempo prima che ripeta uno tsunami come quello dell'autunno 2011. E non è affatto detto che vi possano di nuovo sopravvivere l'Euro, il sistema bancario e l'economia del continente.
Non si tratta di strillare un “non pagheremo” che creerebbe un'apocalisse finanziaria. Non si tratta neppure di ricorrere ad un'indiscriminata “monetarizzazione” del debito; di avviare le stampanti ed inondare il pianeta di Euro che diventerebbero subito carta straccia. Devono, i governi europei, sedersi attorno ad un tavolo per trovare una via d'uscita comune ad un problema che è di tutti, anche dei paesi più virtuosi. Una soluzione difficile, che non potrà ridursi ad una sola misura, ma che difficilmente potrà prescindere da una radicale ridefinizione del ruolo della BCE.
Levata di mezzo qualunque remora moralistica, il risultato di una trattativa a viso aperto tra i paesi più in difficoltà, che dovranno dimostrare di volersi liberare, oltre che di una parte del debito, delle inefficienze dei loro sistemi, eredità dei governi che quello stesso debito hanno creato (sì, alcuni compitini dovranno comunque essere fatti), e paesi che gli stessi problemi hanno in minor misura, ma che non possono sostenere che le colpe dei padri e dei nonni debbano ricadere su figli e nipoti. Un concetto su cui i tedeschi, proprio i tedeschi, dovrebbero essere i primi ad essere d'accordo.
P.S. Ho scritto questo articolo quattro anni fa. Questo è ancora quel che penso del problema del debito. Sembro un grillino? No. Non accuso l^Europa di un bel niente e non mi sogno di minacciare sfracelli. Esprimo delle ragioni, come spero faccia, prima o poi, qualche nostro rappresentante. Con i dovuti modi e nelle dovute sedi.

domenica 27 maggio 2018

Caro signor Fleischauer,


lei è un maledetto cretino. E’ la terza volta che glielo scrivo. La prima fu per quei suoi apprezzamenti sul nostro carattere nazionale dopo l’affondamento della Concordia. Poi glielo scrissi quando fu scoperto il mondo truffaldino con cui il gruppo Wolkswagen aggirava le leggi sul controllo delle emissioni. Allora cercai di strusciarle il muso sulla cacca, se mi permette una metafora all’altezza delle sue. Le scrissi che se fossi stato un cretino come lei avrei accusato “i tedeschi” di essere dei truffatori. Invece, continuavo, per me i tedeschi restavano ottanta milioni di cittadini dell’UE, alcuni ottimi e alcuni pessimi, ognuno con le sue responsabilità. A essere truffatori, eventualmente, se riconosciuti per tali dai tribunali, erano solo i dirigenti WV. E lei, comunque, rimaneva un cretino. Un cretino che però, ora, sta diventando pericoloso. Per l’Italia, la Germania e l’Europa. Cretino pericoloso lei e una pericolosa cretinata il suo articolo per lo Spiegel. Lei è un razzista, parliamoci chiaro. Libero di esserlo in privato; non ci sono leggi contro i razzisti come non ce ne sono contro i cretini. Quando riversa la sua bile sulla tastiera, però, fa danni enormi. In questo momento il mio paese sta per essere governato dal proprio peggio. Capita. In America sta capitando; a voi è successo l’altro ieri. Articoli come il suo fanno solo il gioco di questo peggio. Fanno passare l’idea di una Germania e di un’Europa prevenute contro l’Italia. Addirittura responsabili del nostro disastro. Un’idiozia, considerato che l’Europa ci ha offerto un quarto di secolo d’interessi bassissimi che avrebbero dovuto permetterci di risanare i nostri conti? Vero. E un’idiozia doppia considerato che arriva dal capo di un partito che, con il suo federalismo alla padana, è stato il principale responsabile dell’esplosione della nostra spesa pubblica tra il 1997 e il 2011 (più sessanta per cento; altro che tagli ...). Purtroppo, però, anche noi abbiamo i nostri idioti e ne abbiamo tanti. Tra loro anche i commentatori che rispondono alle sua accuse contro “gli italiani” con altre contro “i tedeschi”. Tedeschi cui, invece, non credo vada ricordata la storia. Che penso sappiano benissimo quanto sia ingiusto incriminare tutto un popolo per le colpe di pochi (anche se quei pochi erano qualche milione, neh ...). Piuttosto darei a lei, ai miei connazionali che ragionano come lei, e a tutti i vari nazional-razzisti dei bei fucili con delle lunghe baionette. Poi vi porterei su un’isola deserte e vi lascerei lì, a sbudellarvi a vicenda, mentre noi, con tutti i nostri limiti, cerchiamo di continuare a costruire l’Europa. I vecchietti come me e la ragazza spagnola e il ragazzo danese che fregandosene di lei, di Salvini e di qualunque pregiudizio, magari proprio in questo momento stanno facendo l’amore. Ragazzi che i confini li stanno abbattendo a letto e che della vita hanno capito tutto quello che lei non capirà mai. 
Non perché lei sia tedesco, ci mancherebbe. 
Solo perché è un cretino. 
Sempre il solito cretino.

sabato 26 maggio 2018

La gente vuole, diceva il Bandana.

I nuovi fazzolettini gialloverdi (nuovi? Salvini è in politica da 25 anni ...) parlano addirittura in nome del popolo. Del popolo che “vorrebbe”. Con molta sicumera (ma che ne sapete delle aspirazioni di tanti che sono popolo almeno quanto i vostri elettori?) e tanta confusione. Basta scorrere i punti del “contratto” per capirlo. Meno tasse e più spese, senza curarsi del bilancio, perché il popolo “vuole” così. Senza tener conto, però della differenza tra “volontà di tutti” e “volontà generale”. Due termini introdotti solo da Rousseau, ma facilmente comprensibili. La “volontà di tutti” è quel che chiunque desidera quando pensa solo a se stesso e all’immediato. “Tutti” vorrebbero pagare meno tasse. Anzi, non vorrebbero pagarne per niente. “Tutti” vorrebbero andare in pensione prima, magari al compimento della maggiore età. La “volontà generale”, invece, è quella dei cittadini che non guardano solo al proprio ombelico e al presente. Avere strade, scuole e ospedali è “volontà generale”, come è “volontà generale” che si paghino le tasse necessarie a mantenerli. Una “volontà generale” che certo definisce un popolo più dell’etnia o della lingua, ma che proprio i nostri populisti preferiscono ignorare. Perché nasce dalla ragione, e non dalle viscere. Perché soddisfarla non si traduce subito in un consenso come quello che hanno appena conquistato. Assai ampio, anche secondo i sondaggi, rende di nuovo attuale pure un altro dei temi già cari al Bandana. Il risultato, anzi, della diseducazione civica operata negli anni dalle sue tivù: la convinzione che la democrazia consista nello strapotere della maggioranza. Nulla di più sbagliato. Nell'Italia del ‘36 quasi tutti erano favorevoli al regime, come quasi tutti erano nazisti nella Germania di allora o comunisti nell'Unione Sovietica stalinista. Tre casi in cui governava chi, eletto o no, aveva il sostegno della maggioranza. Governava con potere assoluto, però, è proprio per questo era un dittatore. La democrazia, infatti, è altro. È l’insieme delle regole che frenano il potere dei più perché siano rispettati i diritti delle minoranze. Regole, fissate nel marmo delle Costituzioni, che hanno anche un altro scopo. Quello d’inserire l’operato dei governi, transitori come le fortune elettorali, in progetti di portata storica che leghino tra loro le generazioni e saldino le nazioni. Qualcosa che dovrebbe capire anche chi ora sventola il tricolore, magari dopo aver scoperto un tardivo amore per l’Italia. Un paese creato dai millenni e una Repubblica che non si fonda sui moti intestinali, ma sulle pietre posate dai suoi Padri. Qualche loro nome? Einaudi, Giolitti, De Gasperi, Saragat, La Malfa, Togliatti, Nenni, La Pira, Foa, Dossetti, Terracini, Parri, Bobbio, Lombardi, Croce e, certo, Pertini. Meglio ricordarli prima che qualcuno, in questo tempo analfabeta, li includa tra le odiate elite. Magari per poi, in nome del “popolo”, destinare al rogo il loro capolavoro.

martedì 22 maggio 2018

Lo vogliono gli italiani.

Il sessanta per cento di loro, secondo i sondaggi, è favorevole al nuovo governo . Il suo presidente del Consiglio? Nessuno sa davvero chi sia. Tutti, però, sembrano conoscerne il  programma. Folle. Per certi versi vergognoso. Meno tasse, più spese e troveremo là fuori qualcuno cui far pagare il conto. Una specie di grande scaricabarile nazionale. Impossibile da realizzare. Che porterà quasi certamente alla fine dell’Europa e precipiterà il paese nel dramma. Che ci farà fare la fine della Grecia, ma solo se saremo molto, molto fortunati. Una discesa negli inferi tra gli applausi. In una tarda primavera che me ne ricorda altre. Altri momenti di follia collettiva. Il 9 maggio 1936. Con una tipica guerra d’aggressione, usando aviazione e gas contro un esercito armato di fucili, sì, ma di poco altro, abbiamo appena conquistato l’Etiopia. L’età coloniale è stra-finita. Le altre potenze europee, Inghilterra in testa, stanno pensando a come ritirarsi da imperi che ormai costa troppo mantenere quando Mussolini ne proclama uno. Per la gioia degli italiani. Di quasi tutti. Anche degli antifascisti. Tra le poche eccezioni, il giovane Pertini. Perché ha il carattere che ha. Perché ragiona. Come troppo italiani continuano a non fare il 10 giugno 1940. Altro discorso del duce. Piazza Venezia sempre gremita di una folla entusiasta. Si entra in guerra. Una guerra finta, sanno tutti. Contro una Francia già sconfitta e un’Inghilterra che firmerà la pace a giorni. Non ci sentiamo forti. Non per davvero. Ci sentiamo furbi. Furbissimi. Siamo ridicoli, come il pollo che si siede al tavolo da poker convinto d’avere a che fare con degli imbranati e si ritrova spennato. Ridicoli come siamo stati un decennio fa. La data? Otto maggio 2008. Si insedia il quarto governo Berlusconi. Lui racconta barzellette. L’elenco dei suoi ministri potrebbe esserne una. Ci va bene così, però, nonostante non si capisca in cosa speriamo. Forse nello stellone. Di certo siamo vittime di una campagna di disinformazione simile a quella di questi giorni. Siamo felici di esserci liberati di Prodi, ridicolizzata “faccia di mortadella”, demoniaco “affamatore di pensionati”. Uso la seconda persona plurale per non chiamarmi fuori. Perché non sono né leghista né grillino. Non tutti la pensavamo così. Anche in quel caso, a volere il nuovo governo, secondo i sondaggi era il sessanta per cento di noi. Un governo che nel giro di poco più di tre anni ci avrebbe condotto a un passo dalla catastrofe. Un passo che forse compiremo già nelle prossime settimane. Magari sotto gli ombrelloni di ferragosto. Una profezia delle più facili, se si è conservato l’uso della ragione. Se ci si è rassegnati a essere minoranza. Senza il minimo orgoglio. Con la disperazione nel cuore. E la certezza che quando gli italiani si trasformano in massa plaudente si avviano sempre verso la propria distruzione.
P.S. Non sono un profeta. So solo che finirà con la vittoria di russi e americani. Basta ricordare la storia e il poco latino necessario a chiedersi “cui prodest”?
P.P.S. Non sono un profeta, ma so benissimo che dopo non riusciremo a trovare un solo leghista o grillino. Dopo, quando avvieremo la ricostruzione. Spero tutti assieme. Spero, finalmente, avendo imparato qualcosa.

domenica 20 maggio 2018

L’Onorevole e il famoso giornalista

sono lì, faccia a faccia, sullo schermo. Un programma contenitore della domenica pomeriggio, allora famoso. Papà e io stiamo aspettando la partenza del Gran Premio. Lui è già malato. Forse per quello, da qualche tempo mi parla più del solito, quasi volesse lasciarmi un’eredità fatta anche di parole. “Vedi,” mi dice, “tutto dipende dalla vocazione”.

Io lo guardo perplesso. A proposito di “vocazione”, qualche giorno fa mi ha augurato di trovare la mia, ma non capisco ora cosa c’entri.
“Se ne hanno una sincera, quelli come loro, non importa che idee abbiano, tengono assieme una comunità”, mi spiega, “se invece fingono solo di averne una, se non credono in quello che fanno, distruggono un paese.”

venerdì 18 maggio 2018

Sono solo venditori di fumo e giocatori di tre tavolette.

Capaci di imbonire. Furbi, ma senza la minima fiducia nell’Italia. Convinti che sia in grado di sopravvivere solo grazie a trucchi contabili. Un paese di cui non sanno nulla. “Siamo mediterranei”, ha più o meno detto il Megafono, “con un’economia come quella Greca”. Ma quando mai? Siamo il secondo paese esportatore e la seconda potenza industriale dell’UE; di fatto più simile alla Germania della stessa Francia. Abbiamo mille problemi, ma tutti interni, come dimostra la bilancia dei pagamenti, e che per essere risolti hanno solo bisogno di riforme interne. Riforme, penso sempre a quella della giustizia civile che, però, nessuno ha mai avviato (certo: non si possono scomodare centinaia di migliaia di potenziali elettori) e che non sembrano interessare gli infimi dioscuri del “nuovo”. Le loro prime idee in materia d’economia? Una barzelletta. “Gigi, ti ricordi quei mille Euro che mi hai prestato? Ecco, te ne vorrei ridare novecento, e non escludo di farlo usando i soldi del Monopoli. Capito? Bene, ora mi presteresti altri cento Euro? No? Come no? Ma allora è un complotto!” Baggianate che berranno solo i loro elettori. Così vecchi. Decrepiti. Fermi ai nostri anni ’80 e al loro scellerato patto sociale. Libera evasione fiscale per far contenti i ceti produttivi; pletore di assunzioni nel pubblico impiego e pensioni come se piovesse per tener buoni tutti gli altri. Risultato, anche senza tirare in ballo tangenti e appalti? Burocrazia elefantiaca, sistema previdenziale insostenibile e devastazione dei conti pubblici: nel 1992 siamo arrivati a un passo dal fallimento e dal vedere la Lira ridotta a carta straccia. Esito da ricordare a chi pensa che si possa tornare a quel modello di (sotto) sviluppo. Cittadini “col trucco”, vogliosi di una libertà senza responsabilità. Per cui lo stato, se da una parte ha ogni colpa, dall’altra può tutto. In questo perfetti residuati del ventennio, avanzi del CAF e discepoli di Tremonti. Sicuri che bastino la maschia volontà del duce o un po’ di “creatività” contabile per generare ricchezza. Cittadini che, come tutti i truffati, sono in fondo complici dei propri truffatori. Di una genia di politicanti nuovi solo nei modi atroci e per il resto affetti da arteriosclerosi precoce. Urlatori che hanno torto anche quando potrebbero aver ragione. Il debito pubblico pesa anche su Francia e Spagna. Una sua riduzione, con conseguente svalutazione dell’Euro (che finirebbe per essere pagata da tutti gli europei) dovrebbe essere considerata. Una questione, però, da discutere nei dovuti modi, dando prova di dignità e serietà. Mi viene in mente De Gasperi a Parigi nel 1946. Davvero con le pezze al culo, volando su un residuato bellico, andò a presentare le ragioni di un grande paese. Sconfitto, in macerie, ma sempre un grande paese. L’Italia e non la miserabile e berciante repubblica bananiera che un branco di guitti, già capaci di fare danni miliardari solo con i loro sproloqui, pensa di dover governare.

giovedì 17 maggio 2018

“Ogni ascesa del fascismo

reca testimonianza di una rivoluzione fallita;” scriveva Benjamin. Resta vero nell’Italia del 2018. La rivoluzione che non ha dato frutti, o che ne ha dato di pessimi, nel nostro caso è stata quella di Mani Pulite. Avrebbe potuto essere una vera liberazione, un ritorno della Repubblica alle proprie origini. Lo sarebbe stata, forse, se con l’acqua sporca della partitocrazia non avessimo gettato anche i partiti; se non ci fossimo sbarazzati, oltre che dei dirigenti corrotti, degli ideali che innervavano il nostro dibattito politico. Per un paio di decenni è sopravvissuta solo una generica opposizione destra – sinistra; opposizione peraltro falsa perché fondata, proprio dalla destra, su premesse ormai scadute, risalenti a una Guerra Fredda che era già finita ovunque tranne che per Berlusconi e i suoi elettori. Ora non resta più neppure quella. Il liberalesimo è pressoché estinto; il comunismo è ridotto a posizioni di testimonianza. Il PD e FI, le uniche forze di una qualche consistenza che possano più o meno essere ricondotte alla tradizione, sono sulla difensiva. Il resto, un resto assolutamente maggioritario, è fascismo. Magari ignaro, magari inconsapevole, ma fascismo. Né di destra (o di una destra sociale) né di sinistra, proprio come il fascismo che si vedeva come terza posizione. Gonfio di retorica populista e di un nazionalismo distruttivo. La stessa cara ai grillini (la definizione fascista dell’Italia come “grande proletaria” potrebbe essere loro). Lo stesso agitato dalla nuova Lega. “Gli stranieri non ci amano” potrebbe essere uno slogan dei leghisti che alle mussoliniane “perfida Albione” e “iniqua Marianna” hanno sostituito l’Europa causa di tutti i mali. Il tutto condito dai soliti pregiudizi anti-intellettuali (le odiate elite ...) e dalla condanna di tutta la politica precedente la fondazione del proprio salvifico movimento (la kasta). Del fascismo tardo, quello che aveva scambiato il bacio della morte con il nazismo, c’è anche il razzismo. Negato, magari, ma con scarsissima convinzione. Nei fatti rivendicato da Salvini (basti pensare alla campagna per l’elezione del governatore lombardo) e lasciato abilmente intuire da Grillo (cercate in rete le sue dichiarazioni, per esempio, su romeni e tunisini). Del fascismo ci sono state anche le minacce, contro politici, giudici e giornalisti, ma manca ancora l’aperta violenza. Svastiche e camicie nere, invece, marciano già per le nostre città. Sotto lo sguardo compiaciuto di Salvini. Mentre il sacro Megafono, tra una strusciatina e l’altra con CasaPound, ripete “l’antifascismo non ci compete”.

lunedì 14 maggio 2018

Patria.

Un termine che scrivo sempre con la maiuscola e quasi sempre riferendomi all’Italia. La Patria del mio cuore, viscerale, per cui mi emoziono e a volte vorrei piangere. Una Patria che, da buon italiano, sento come una Mamma. Magari non sempre perfetta, ma sempre e comunque la Mamma. Mi riconosco, però, anche in una Patria microscopica, fatta di rocce taglienti, neve, lastre di ghiaccio e prati spelacchiati dal gelo. Una Patria in cui non sono nato e non ho mai vissuto, ma che è la terra dove affondano le mie radici. E’ la mia culla, se volete, odorosa del fieno tagliato sotto il sole d’agosto nel ricordo delle vacanze infinite che passavo con i nonni. Poi c’è casa mia: l’Europa. Tutta: da Pantelleria (che ricordi ...) a Christiania; da Inisheer (ho pensato di andarci a vivere) a Ferenczvaros (dove ho vissuto). Un’Europa che è la mia dimensione spirituale; che definisce la mia cultura. Una grande Patria che è anche il risultato di un’educazione, certo, ma che è vera e sentita quanto le altre. Nessuno mi chieda di rinunciarvi. Sono europeo esattamente quanto sono italiano: fino al midollo. Piuttosto, devo ancora crescere. Voglio completare quell'educazione e arrivare a sentire come Patria tutto il mondo. Perché siamo tutti a bordo di quest’astronave sempre più piccola lanciata tra le stelle. Perché un africano o un cinese ridono e piangono proprio come noi. Non ci sono ancora. Non fino in fondo. Ci arriverò. Parafrasando le parole di un poeta mio amico, un giorno voglio poter dire, ai nipoti che spero d’avere: “Sono campanilista come ogni italiano, ma il mio campanile si chiama umanità.”

venerdì 11 maggio 2018

Siamo perdendo la Repubblica.

Non la seconda o terza. L’unica che abbiamo: quella nata dalla Resistenza, costata davvero lacrime e sangue. Ce la stiamo lasciando scippare e con lei l’idea di un’Europa unita dove non si potessero ripetere i massacri del Novecento. Secolo cui stiamo tornando. Non breve, come lo definiva uno storico che pure tanto ammiro, ma lunghissimo. Il secolo della nostra autodistruzione. L’età dei nazionalismi e dei fascismi che ormai sono riemersi. Finanziati dai nemici dell’Occidente, pare quasi certo. Pronti a essere braccio armato dei nuovi populismi. Il peggio della nostra storia a braccetto con il peggio della nostra cronaca. I giornali come clessidre. Notizie che gocciolano a scandire i secondi che mancano alla mezzanotte. La giunta leghista di Rho che pensa di festeggiare il 25 Aprile facendo sfilare un reparto di pseudo - SS. L’assessora regionale lombarda, eletta per meriti sciistici, che vaneggia di un “fascismo buono”. La giunta destrissima di Genova che manda un proprio rappresentante, eletto con Fratelli d’Italia, a una cerimonia commemorativa dei caduti repubblichini. Con la fascia tricolore delle occasioni ufficiali. Confondendo la pietà dovuta ai morti di ogni parte, quando non responsabili di crimini efferati, con i doveri istituzionali. Blandendo gli eredi di Salò, mentre interi quartieri della capitale sono in mani mafiose. Feudi di una criminalità che fa anche politica. Vicina a CasaPound, pare; vicina al M5S, pareva pure. M5S che ha ancora per portavoce, o per padrone, un pregiudicato che andava dicendo “l’antifascismo non mi compete”. Se non colluso pronto a colludere. Mo’vi mento che ha stravinto in Sicilia, riuscendo nel miracolo di fare campagna elettorale da quelle parti senza mai usare la parola mafia. Pronto a governare con una Lega ormai contigua al neo-fascismo, che a dir poco ignora le infiltrazioni della ndrangheta in Lombardia e raccoglie sorprendenti consensi in Calabria. Solo voci. Sospetti. Palese, invece, la compagnia di disinformazione di questi anni. La riscrittura della storia con la sinistra fatta diventare colpevole d’ogni male. Negando la realtà a colpi di “tanto sono tutti uguali” e grazie ad assurde equivalenze morali. Un vago sospetto di bustarella, a volte neppure quello, considerato più grave della negazione dell’Olocausto. Dando uno stranissimo significato alla parola onestà. Dimenticando la storia personale del comico chissà come entrato nella Rai più lottizzata. Dimenticando i 40 o 50 milioni di Euro di rimborsi elettorali fatti sparire dalla Lega e i disastri del berlusconismo. Lotofagi illusi da un nuovo che è solo distruzione di quel che i nostri padri hanno costruito. Con un apparato ideologico e un programma economico di stretta derivazione bananiera. Senza nessun coerente progetto. Usurpando la buona fede dei tanti convinti di avere trovato i propri vendicatori, ma ancora una volta destinati a pagare il prezzo di tutto. Come sempre e senza sconti.

giovedì 10 maggio 2018

Leggo che te ne sei andato e mi prende la vertigine.

Un turbine d’immagini e ricordi. Il volto di Massimo Troisi. Chissà se eravate amici? Tu, Ermanno Olmi, bergamasco dal nome longobardo, e lui napoletano. Uniti dalla fede nell'umanità. Nella possibilità di comunicare di là della parola, con gesti senza tempo e sguardi che sono di ogni cultura. Poi arrivano gli occhioni del mio fratellino nel buio di un cinema parrocchiale. Avrà avuto cinque o sei anni. Lui bambino ed io ragazzino, soli davanti al tuo capolavoro. Stregati, perlomeno lo ero io, dal tuo modo di vedere il mondo. Dal tuo sguardo. Dalla tua poesia. Termine abusato, però. Ambiguo. Penso ai poveri felici dei quadri del Todeschini, pittore settecentesco che lavorava proprio dalle tue parti. Penso ai villani danzanti delle opere dei bamboccianti, emuli di Peter Van Laer attivi nella Roma del Seicento. Immagini perfettamente reazionarie. Descrizioni fantasiose del mondo contadino prodotte per lenire i sensi di colpa dei privilegiati. Simili alla nostalgia del passato affettata da tanti che, ora, non saprebbero restare mezza giornata senza telefonino. Ecco, la tua poesia non aveva niente a che vedere con tutto questo. Era quella dei piedi sporchi e gonfi di quel pellegrino adorante dipinto da Caravaggio, in fondo un altro bergamasco. Poesia della realtà, la sua. Fatta di veri ricordi, la tua. Altro che fiaba, come ho appena letto in un coccodrillo. L’eco delle testimonianze di nonni e bisnonni; la rappresentazione di una povertà affamata lontana da noi solo un paio di generazioni. La voce di Luigi. Il suo italiano, cristallino, con le parole scelte e scandite come fa solo chi parla una lingua che ama, ma ha dovuto studiare. Il dolore che ancora risuona, sessant’anni dopo, quando mi racconta della cuginetta morta di pellagra nelle campagne venete. Luigi, con il naso importante, gli zigomi altissimi e tutte le rughe della vecchiaia. Forse avresti fatto un attore anche di lui: un altro personaggio nella tua narrazione lirica della memoria di un popolo. Un vero e proprio poema epico, perché questo è "L'albero degli zoccoli", cui tutti stanno facendo omaggio, come alle altre tue opere. Tutti, anche i tanti, proprio nella nostra Lombardia, che devono averlo travisato. Anche i troppi che non capiscono chi ci sia su quel carretto che si allontana nell’alba livida, alla fine del film. Non solo i fittavoli espulsi dal latifondista. Chiunque debba lasciare la propria casa, con la fame a mordere lo stomaco e l’ansia a serrare la gola e far di vetro gli occhi. Chiunque. Anche se si chiama Fatima o Amir, ha la pelle nera e, a bordo di un barcone, può solo prendere la strada del mare.

martedì 8 maggio 2018

Ascoltate il vecchio Sigmund e lasciate perdere il resto.


Sì: bisogna tornare al padre della psicanalisi per capire i dioscuri del nostro nazional-populismo. Forse governeranno assieme. Nel frattempo sono tornati in campagna elettorale. Rivolgendosi al popolo, come sempre e come è bene notare. Non ai cittadini. Non agli elettori che esprimono con il voto un’informata opinione, come da definizione di liberal-democrazia, ma a una massa indifferenziata e irriflessiva che non sa e non vuole sapere. 
Il paese ha gravi problemi. Verissimo. Le origini di questi, però, risalgono perlomeno agli anni ’80. A uno sviluppo modesto (rispetto ai decenni precedenti) finanziato con un’esplosione del debito pubblico. A scelte sbagliate come l’abolizione della scala mobile. Levata quella, gli stipendi si sono costantemente ridotti, in termini reali, provocando quella contrazione del mercato interno che è la causa prima della nostra crisi. Salari bassi che, per giunta, non attirano investimenti. La ragione? L’inefficienza della burocrazia, prima ancora che la corruzione della politica. Soprattutto, dice l’Ocse, una giustizia civile che è la più lenta al mondo. Una palla al piede di un’economia che trova ossigeno solo nelle esportazioni. Sì, perché l’Italia è comunque un marchio di successo, sui mercati mondiali. Sì, perché nel 2017 abbiamo venduto merci all’estero per un valore di 450 miliardi, con un attivo di oltre 50 della bilancia commerciale. Numeri che ribadiscono come i nostri problemi siano quasi tutti solo interni. Risolvibili, ma solo scomodando un paese refrattario ai cambiamenti. Abitato da conservatori, quando non da reazionari. Sono loro a trovare irresistibili le sirene leghiste e grilline. Pronti a scatenarsi contro gli immigrati, anche se nell’ultimo anno ne sono arrivati 100.000 in meno rispetto all’anno precedente. Anche se nel 2017 l’Italia ha concesso asilo a un gran totale di 30.000 rifugiati; un decimo di quelli accolti in Germania. Pronti a credere, nonostante quei dati dell’export, che basterebbe lasciare l’Euro per tornare a crescere. Sempre alla ricerca di assoluzioni, prima che di soluzioni. Di certo, poco o nulla interessati alla realtà. Lo hanno capito Salvini e Grillo, supremi spacciatori di favolette. Nuovi imbonitori di menzogne antiche. Quelle, appunto, di cui scriveva Sigmund Freud in queste sue righe. Tenete a mente che sono del 1921 e leggetele: “Le masse non hanno mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare. L'irreale ha costantemente in esse la precedenza sul reale, soggiacciono all'influsso di ciò che non è vero quasi altrettanto che a quello di ciò che è vero. Hanno l'evidente tendenza a non fare alcuna distinzione tra i due.” 
No, l’era delle fake news non è cominciata ieri. 
I “popoli” disposti a farsi menare per il naso ci sono sempre stati.

domenica 6 maggio 2018

Nove versi di PPP per questi tempi.

Un ripiano della mia libreria è tutto per te, Pier Paolo. Ci sono i tuoi romanzi, i tuoi scritti e le tue lettere. Ci sono anche tutte le tue poesie. Le mie compagne di tante sere. Poesie come le note dei tasti neri del pianoforte, quelle nella lingua di tua madre, che mi toccano il cuore con dita di nostalgia. Poesie scabre come le rocce di un deserto, quelle che la mia mano è andata a cercare l’altra notte. Scritte nella solitudine, non posso che immaginarti solo. Profetiche. Quelle della tua raccolta “Poesia in forma di rosa”. Figlie del loro tempo. Sembrano scritte per il nostro. Ho riempito quel volumetto dei foglietti che uso come segnalibro. Troppi, troppi versi memorabili. Tra loro alcuni, di “La Guinea”, che però devo riportare. Semplicemente, devo,
L'intelligenza non avrà mai peso, mai, 
nel giudizio di questa pubblica opinione. 
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da una dei milioni d'anime della nostra nazione, 
un giudizio netto, interamente indignato: 
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato 
da secoli, la cui soave saggezza 
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.

Vorrei che li leggessero i militi del fascio-leghismo. I revisori e ri-scrittori della nostra storia. I troppi elettori a moralità limitata e a memoria ridotta. Gli eterni reazionari. Pronti a sacrificare il capro espiatorio, a mettere sul rogo la strega e l’untore. Pronti a tutto pur di non cambiare nulla. Sempre in cerca di un’assoluzione collettiva. Coraggiosi nello scagliarsi contro l’infimo e il remoto. Contro il rifugiato mezzo morto di fame o i sempre nebulosi, mai specificati, poteri forti. Servi d’ogni padrone, nella realtà. Inginocchiati per un posto in regione, per continuare a non pagare le tasse o per i soldi di un lucroso appalto. Vorrei che leggessero quei versi e capissero. Parlano di loro, e sono del 1962. Li denudano. Li rivelano per quello che sono. Non l’avanzare del nuovo. Neppure il ritorno del vecchio.. La polvere sottile che da sempre vela la nostra società. La morchia perennemente infilata negli ingranaggi delle nostre istituzioni. Non la feccia che risale il pozzo. La feccia che, in realtà, in fondo al pozzo non è mai tornata.
P.S. Non vorrei che il termine fascio-leghismo creasse confusione. Non penso che la Lega sia una prosecuzione del fascismo. Tra mito del sangue e idoli pagani, l’immaginario leghista resta di stretta derivazione nazista.

sabato 5 maggio 2018

Se passerete una serata con degli italiani,

avverto sempre gli amici stranieri che non ci conoscono, li sentirete inevitabilmente parlare malissimo del proprio paese. Non commettete l’errore di dar loro ragione. Anzi, non criticate minimamente l’Italia; non ve lo perdonerebbero mai. Non siete italiani e a voi è solo consentito ammirare la culla della civiltà, la terra di Roma e del Rinascimento, il più bel paese del mondo. Noi italiani, continuo a spiegare, siamo nazionalisti come gli americani. Forse anche più di loro. Nazionalisti, ma a modo nostro. Non sventoliamo in continuazione la nostra bandiera. Non ripetiamo a tutti di essere i migliori. Facciamo l’esatto contrario. Diciamo di fare schifo, ma, questo è il punto da capire, qualunque altro paese per una ragione o per l’altra ci fa schifo più del nostro. Se volete, non ci vediamo come i migliori, ma come i meno peggio del pianeta, che all’atto pratico è la stessa cosa. Di solito concludo questo discorsetto, che ho ripetuto per davvero più volte, con un’ultima considerazione. Per i tedeschi la Germania è l’Heimat. Per i francesi la Francia è la Patrie. Per noi italiani, l’Italia è semplicemente la Mamma. Noi, i suoi figli, possiamo dirne peste e corna. Ma che nessun’altro si azzardi a farlo.

lunedì 30 aprile 2018

Buon Primo Maggio.

A chi lavora, ha lavorato e lavorerà. In una Repubblica fondata sul lavoro, ma dove i lavoratori sono sempre stati solo portatori di voti e consensi. Divisi per categorie. A questo o quel partito. Sempre in fabbrica, in ufficio o nei campi. Lontanissimi dal potere ieri, oggi e domani. Cosa accomuna i due nuovi dioscuri della politica nazionale? Non hanno mai lavorato un giorno o quasi. Come i peggiori politicanti della Prima Repubblica. Campioni di retorica come loro. Come loro immaginifici spacciatori di pseudo-soluzioni, con pochissimo senso della realtà e ancor minor rispetto del bilancio. Capaci solo di proporre altri debiti. Il risultato delle distribuzioni di pane alla plebe e degli sconti fiscali a chi, comunque, di tasse ne ha sempre pagate poche. Il tutto nella convinzione che all’Italia non rimanga che gestire la propria decadenza. Un paese che invece resta a galla. Nonostante tutto. Solo grazie a chi lavora. Tra loro, chi produce le cose belle che esportiamo in tutto il mondo. Aziende floride in un’economia che è al collasso proprio perché ci si è dimenticati dei lavoratori. Dei loro salari. E nessuna forza politica, neppure quelle nuovissime, dice qualcosa a riguardo. Basterebbe un piano decennale o ventennale per il graduale recupero del potere d’acquisto degli stipendi. Nulla di rivoluzionario. Un provvedimento concordato con gli imprenditori che farebbe ripartire il mercato interno e potrebbe innescare un nuovo boom economico. Poi servirebbe il coraggio necessario a proclamare due verità. La prima è che lo sfruttamento dei lavoratori è un reato grave quanto un rapimento o a una rapina. Dal 2016 una legge prevede il carcere almeno per i caporali dell’agricoltura. Dovrebbe finire in galera chiunque paghi i dipendenti meno del dovuto o li costringa a lavorare in nero. Dipendenti, e questa è la seconda verità, che comportano superiori costi sociali se assunti a termine. Ne consegue che se il lavoro temporaneo deve esistere, in alcuni specifici settori è una necessità, deve costare di più, nettamente di più, di quello a tempo indeterminato. Una legislazione che ne prendesse atto, spazzerebbe via i tanti furbetti che, specie nel nostro arretratissimo terziario, condannano i propri dipendenti a un eterno precariato. Sarebbe un altro modo di restituire dignità al lavoro. Un passo decisivo per uscire da questa crisi infinita. Iniziata addirittura nel 1985 (guardate i dati sulla produttività, se avete dei dubbi), con l’abolizione della scala mobile. L’inizio di un circolo vizioso, salari sempre più leggeri, mercato interno sempre più ristretto, che ancora ci sta soffocando. Che spezzeremo definitivamente quando capiremo fino in fondo il significato, anche economico, di quel primo articolo della nostra Costituzione. Quando il Primo Maggio, detto altrimenti, tonerà ad essere qualcosa più dell’occasione per un gran concerto e per scambiarci degli auguri.

domenica 29 aprile 2018

La scandalosa bavarese della libertà.

Ve la faccio breve. La storia. E anche la bavarese. Anche questo Venticinque Aprile, come ogni anno, a casa mia si è cenato tricolore. Ospiti i miei vicini, una coppia di amici e un branco di giovinastri. Amici di mio figlio ma invitati da me, convinto che al massimo ne venisse un paio. Solo che non sapevo della Casa de Papel. Dai, ha insistito con loro mio figlio, che si canta Bella Ciao. E loro sono arrivati tutti. E di corsa. Perché Bella Ciao va fortissimo da queste parti, appunto per via della Casa de Papel: un telefilm che la usa come colonna sonora in certi momenti topici. Questa sarebbe la storia. Passiamo alla bavarese. Sapendo che avrei avuto tanti ospiti ne ho fatte due. Bavaresi di fragole, ovvio. Con la panna e le foglioline di menta come guarnizione. I colori, appunto, della nostra bandiera. Senza troppa fantasia e senza troppa abilità. Seguendo la ricetta che potete trovare in qualunque angolo della rete. Si puliscono bene le fragole. Nel frattempo si ammolla la colla di pesce e si monta, non troppo ferma, la panna. Si scottano le fragole per quattro minuti in acqua bollente, si frullano, si lasciano raffreddare quindi, unico punto critico, si uniscono alla panna e alla colla di pesce, opportunamente filtrata per evitare grumi. Movimenti calcolati eh, usando una frusta, dall’alto verso il basso. Fatto questo, si deve solo versare il composto in uno stampo e mettere in frigo perché si rapprenda. Uno stampo da bavarese che avrei. Uno. Ma di bavaresi volevo farne due. Ci penso. Ci ripenso. Trovo la soluzione. Avete presente quelle ciotole tuttofare di metallo che vende Ikea? Quelle semisferiche? Ecco: ne ho usate due. Hanno funzionato. Le ho bagnate per bene prima di versarci le fragole. Le ho immerse per qualche istante in acqua calda quando, qualche ora dopo, le ho tirate fuori dal frigo, e le due cupole bavare e fragolose sono uscite benissimo. Anche la consistenza. Non proprio solida. Qualcosa più che gelatinosa. Morbida. Tremolante. Si può dire trepidante? Insomma: come doveva essere. Ho piazzato ogni bavarese in centro a un piatto rotondo, mi sono sbizzarrito con le foglioline di menta e della panna spray (non arricciate il naso; non avevo tempo di sacapochare e quantaltro) e ho finito di decorarle con delle mezze fragole. Una fragola sola, intera, invece l’ho messa proprio in cima a ogni bavarese. Ho controllato. Mi sono detto bravo. Sembravano di quelle che si comprano. Le bavaresi, dico. Sembravano a me, dico. Chiamo la figliolanza e gliele faccio portare in tavola, mentre io mi occupo della salsina che doveva accompagnarle (fragole, zucchero velo e succo di limone frullati assieme: vi ho detto che tra gli ingredienti non c’era la fantasia). Scendo con una salsiera in ogni mano e li trovo tutti che stanno ridendo. Bello, mi dico, questo sì che è spirito partigiano e resistente. Ridono e guardano le due bavaresi che i miei figli hanno messo una accanto all’altra in mezzo alla lunga tavolata. Rido anche io, sempre con le salsiere in mano, ma non capisco. Mi spiega E., ingegnere forestale, con la sua schiettezza di tecnico e di uomo dei boschi: “Carajo, Daniel, parecen dos tetas.” 
Non serve che vi traduca.

P.S. Scandalose o no, le bavaresi se le sono mangiate tutte, mentre gli amici di mio figlio hanno scoperto che gli italiani cantato per davvero Bella Ciao .A squarciagola.

mercoledì 25 aprile 2018

Francisco Goya, Tre maggio 1808.

In un'immagine, le vittime e i carnefici di ogni regime. Un capolavoro che vi ripropongo in occasione del Venticinque Aprile.



Francisco Goya, 3 maggio 1808.
Olio su tela di 268 x 347 cm. Museo del Prado, Madrid.
Come si chiamava? José? Pablo? Non si sa, e non importa, anche se tutti ci ricordiamo di lui. Anzi, del bianco della sua camicia. Qualche pennellata di semplice biacca, eppure uno dei colori più memorabili della storia dell’Arte. E dei più inevitabili: che non potremmo mai immaginare, in questo quadro, sostituito da un altro. Una camicia che è il centro visivo del dipinto. Spicca sui toni scuri del resto dell’opera e i nostri occhi, attratti dalla luce, corrono da lei, prima di esplorare quel che le sta attorno. Accade quando osserviamo una riproduzione, come è certo capitato a tutti, tanto è celebre questo quadro. Accade quando, durante una visita al Prado, ci troviamo di fronte all’originale.

martedì 24 aprile 2018

Numeri, per i pochi che conservano l'uso della ragione.

Nel 2017 l'Italia ha finito per garantire l'asilo a 35.130 profughi. L'orrida Austria, crudele e senza cuore, e con un settimo dei nostri abitanti, ne ha accolti altrettanti (33.195). La Germania della feroce cancelliera? La Germania che ci ha lasciato soli e che bada sempre e solo ai propri interessi? Ne ha accolti più di trecentomila; dieci volte noi. Ma si tratta solo di numeri, appunto. Nella follia di questi tempi, importa altro. Conta la percezione. La somma di disinformazione e pregiudizi. Lo dimostrano i polacchi. Pronti a scendere in piazza per difendere la cattolicissima patria invasa dagli islamici. Hanno dato ospitalità a 560 rifugiati. No, non 560.000; proprio 560. Per la metà russi. Per un altro quarto ucraini. E i musulmani? Se ne stanno assieme ai milioni di africani sbarcati lungo le nostre coste durate il governo Gentiloni (nell'ultimo anno, a dire la verità, ci sono stati quasi 100.000 arrivi in meno; ma sono solo dettagli ...) Da qualche parte nel regno della fantasia. Non quello delle fiabe, però. Quello degli incubi caro ai nazional-populisti; ai leghisti di ogni tipo che, se ne rendano conto o no, per mera sete di potere o perché al servizio di altri, stanno distruggendo l'Europa.

lunedì 23 aprile 2018

Le scie chimiche esistono, eccome.

Me lo dice B. che ha studiato, lavora in città e mi presentano amici comuni. 
Basta guardare in cielo, continua: ogni tanto degli aerei si lasciano dietro proprio quelle scie. Di condensazione? Sì, se uno è tanto ingenuo da fidarsi della scienza ufficiale. Comincia così e va avanti per un quarto d'ora. Una cospirazione della Cia, del gruppo Bildemberg e della famiglia Rothschild. Proprio come il comunismo. Si tratta di prodotti chimici. Di sostanze che influiscono sulla psiche. Che trasformano gli uomini in pecore. Che li rendono docili. Soprattutto che ne fanno degli stupidi, pronti a credere a qualunque cavolata.
Bevo la mia birra e taccio. Non lo contraddico; non gli do corda. Spero solo mi lasci in pace.

Quando mi spiega che anche i vaccini sono frutto di quella cospirazione, però, mi convince.
Sì, concordo, di questi tempi c’è davvero in giro qualcosa che rimminchionisce la gente.

sabato 21 aprile 2018

Potreste essere miei figli.

Lo scrivo e me ne pento. Una frase che avrete già sentito, ma che potrete capire solo quando sarete voi ad essere padri. Credetemi, però, se vi dico che mi ha fatto male vedervi in quei filmati. Guardarvi trattare a quel modo un vostro insegnante. Male per lui, umiliato e deriso mentre cerca di fare il proprio lavoro. Male soprattutto per voi, così giovani e già condannati. Destinati "a confinata sorte"; a una vita dagli orizzonti chiusi o peggio. Condannati dalla società, dalle vostre famiglie e da un intero sistema educativo, mass media compresi. Da chi ha fatto di voi delle caricature di delinquenti. Dalla libertà che affettate; dalla stupidità che dimostrate. Quella del prigioniero che disprezza chi potrebbe aprirgli la cella. Chi potrebbe salvargli la vita. Non ho nulla per essere un modello. Ho tre figli e un muto, dico sempre, prima di allargare le braccia. Per il resto potrei parlare solo di quello che mi manca. Sono quasi felice, però. E a volte felice senza il quasi. Di una vita che mi sono scelto. Che sento mia. Che ho vissuto appieno anche grazie a un paio d'insegnanti. Senza di loro avrei accettato quel che per me avevano già scritto altri. Mi sarei accontentato. E probabilmente ora avrei un'ulcera o dovrei ricorrere a qualche psicofarmaco. Insegnanti salva-vita, chiamo quelli come loro. Non sono tanti, ma ce ne sono in ogni scuola. Come si riconoscono? Non certo dall'aspetto. Il primo che abbia visto in me uno scrittore, che mi abbia detto “tu devi scrivere”, è stato il mio prof d'Italiano alle Medie. L.R. Non sono sicuro che voglia si sappia il suo nome. Un ragazzo del sessantotto, con l'eskimo innocente, un rottame di Due Cavalli, grandi ideali e nient'altro. Nessun evidente carisma. Nessun atteggiamento da “attimo fuggente”. Dei capelli lunghi che se ne andavano da tutte le parti e una corporatura esile, tutta pelle e ossa. Un insegnante, però, che mi ha convinto di avere del talento. Soprattutto che mi ha fatto capire che avrei potuto essere anche quello che neppure sognavo di poter essere. Con qualche parola giusta. Suggerendomi i libri giusti. Il primo? Non lo ricordo. L'ultimo, ce l'ho ancora. “La rivoluzione industriale e l'impero” di Eric J. Hobsbawm, tanto perché capissi come storia ed economia andassero a braccetto. Un professore che mi ha aperto una finestra che altrimenti, con una famiglia come la mia, avrei sempre lasciato chiusa. Famiglia che, però, mi aveva perlomeno insegnato a rispettare chi stava cercando di insegnarmi qualcosa. Il minimo assoluto dell'educazione. Quello che a voi manca. Voi che siete troppi per essere liquidati come casi isolati. Voi che, pur considerata la vostra gioventù, avete delle precise responsabilità. Noi adulti che a questo punto dobbiamo fermarci un momento,lasciar perdere i telefonini, spegnere televisori e computer e guardarci in faccia. Senza lanciare accuse e senza cercare scuse. Solo per cercare di capire dove diavolo stiamo sbagliando: genitori e figli, insegnanti e tutti quanti.

giovedì 19 aprile 2018

Le Baccanti chiudono la grande stagione della tragedia greca.

L’hanno ricordato Giacomo Poretti (sì, quello dei film con Aldo e Giovanni) e Luca Doninelli nella lezione “La Paura che non ti aspetti” che hanno tenuto durante il Festiva del Reading di Lomazzo. Lezione davvero magistrale, così stimolante da spingermi a nuove riflessioni sul testo di Euripide; su di un’opera che, più che mai, credo anche abbia valore di avvertimento. La nostra civiltà è nata nella luce d’Apollo; è il risultato di un lungo viaggio nella notte verso l’età della ragione. Noi, però, non siamo solo quello. Il dionisiaco, il ctonio, è pure parte della nostra natura. Inebriati da nuovi dei (come Dioniso per il mondo greco) possiamo riscoprirci feroci; tornare belve. Nelle Baccanti accade ad Agave, madre di Penteo, re di Tebe, che nel delirio della possessione dionisiaca fa a pezzi il figlio. Nella storia del nostro continente è accaduto per due volte nel secolo scorso. Resi folli dal nazionalismo, ci siamo massacrati nella Prima Guerra Mondiale. Un viaggio agli inferi, dentro il nostro lato oscuro, che abbiamo concluso due decenni dopo. Associando l’idea di razza a quella di nazione, facendo della dis-umanità una forma di governo e lasciandoci guidare dai peggiori demoni della nostra natura ci siamo distrutti. Non solo moralmente. In una Seconda Guerra Mondiale che ha ridotto l’Europa a un cumulo di rovine. Un’Europa che è di nuovo sotto attacco. Qualunque cosa si pensi di lui, Macron ha perfettamente ragione quando lo dice. Quando afferma che c’è chi sta preparando una nuova guerra civile europea. Sono i volti nuovi di un populismo che è semplicemente il fascismo di sempre. Con i feticci di sempre: la razza, l’etnia e la nazione intesa come identità tribale. Forse al servizio di un nuovo Dioniso orientale; di un nuovo zar che vuole ricostruire l’impero sovietico e compiere il sogno russo di avere libero accesso al Mediterraneo (sogno che, in fondo, è già stato alle origini della Grande Guerra). Di certo contro la ragione, strumento della sempre più dileggiata scienza “ufficiale” e contro la cultura, appannaggio delle maledette elite. Contro tutto quel che è speranza. Sfruttando i pregiudizi. Grazie a una crisi che ha reso plumbei gli umori. Presentandosi come salvatori di patrie che non corrono altro pericolo che quello rappresentato proprio da quei salvatori. Nazionalisti d’accatto. Basta pensare a Salvini, che ancora pochi anni fa disprezzava il tricolore. Ometti solo assetati di potere. Che vanno fermati con la forza di nuovi progetti e riaffermando antichi valori. Prima che la terra d’Europa, come quella del monte Citerone, torni ad intridersi di sangue. Se non del nostro, di quello dei nostri figli e nipoti, nel tragico finale di una tragedia che già stiamo vivendo. Senza accorgercene. Dimentichi che la pace in cui siamo sempre vissuti non è inevitabile. Magari tanto immemori del nostro passato, e delle sue decine di milioni di morti, da condividere i vaneggiamenti sovranisti di una Lega che gli ultimi sondaggi danno ben sopra al 20%.

mercoledì 18 aprile 2018

Sarà il prossimo Venticinque Aprile a dirci della nuova Italia,

di questa terza repubblica che non si capisce bene perché meriti di essere chiamata così e che proprio non sembra voler nascere. Secondo sua somma ignoranza Matteo Salvini, le elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia e Molise faranno il nome del presidente del Consiglio. Uno sragionamento da politicante di cui prendo atto. Impossibile usare il cervello per criticare una conclusione che non ha nulla a che vedere con i dettati della Costituzione e della logica. Quanto al cuore, preferisco usarlo per altro. Per cantare Bella Ciao con i miei figli e i miei amici, la sera della Festa della Liberazione. Festa, questa sì, che traccerà un confine. Da una parte ci sarà chi rivendica l’eredità morale della Resistenza; dall’altra staranno, con lo sguardo torvo e senza sorrisi, le schiere dei nuovi fascisti, con la camicia nera, verde o di qualunque altro colore. Sarà il momento di una definitiva e chiara scelta di campo. Senza la possibilità di terze posizioni. Una scelta che, a questo punto, dovrà fare anche il “nuovo” della nostra politica. “L’antifascismo non mi compete”, ha detto un paio d’anni fa il Grande Megafono. Un’esibizione dello stesso vigliacco opportunismo che fa ripetere ai capoccia del Mo’ vi mento di non essere né di destra né di sinistra. Un’ambiguità utile per raccattare consensi da tutte le parti ma che non può continuare. Davanti ai valori fondanti della Repubblica con la maiuscola non si può essere “altrove”. Se non si condividono, gettata la maschera e smentita qualunque pretesa di novità, si è gli eredi del peggio della nostra Storia. Sotto un velo sottile di politicamente corretto, e nonostante l'aria imbelle di Ciccino DI Maio, si è la feccia che risale il pozzo.

martedì 17 aprile 2018

Ma quante ne avete raccontate.

Ma quante. Siete stati i protagonisti di una campagna di disinformazione inaudita. Di una vera riscrittura della storia. Parlo di voi, indignati a comando e guerrieri dello sfascismo. Voi che siete quasi spariti dal web, mentre i giornali che contribuivano alla vostra stessa propaganda hanno cambiato registro. Come se l’Italia allo sbando della vostra narrazione fosse improvvisamente diventata un’altra. Come se il nuovo governo che ancora non c’è, e nessuno sa come sarà, avesse già compiuto il miracolo. Quello che sicuramente gli attribuirete. Falsari e immemori. Da una parte le vostre baggianate; dall’altra la realtà statistica. Quella di un'Italia condotta da Berlusconi e Lega fin sull’orlo del fallimento nel 2011, con in cassa i soldi per andare avanti sì e no un paio di settimane, quella che preferite dimenticare. Per raccontare dei “disastri del piddì”. Della stupidità dei “pidioti” che, pur con errori e incertezze, intanto hanno fatto ripartire il paese e lo lasciano in condizioni migliori di quelle in cui l’hanno trovato. L’ondata di criminalità? Ve la siete inventata di sana pianta. Il numero di reati nel 2017 è stato il più basso degli ultimi dieci anni (e quello degli omicidi il più basso della storia). Lo ha ricordato ieri Minniti, alla festa per l’anniversario della Polizia. I milioni di africani sui barconi? Altra palla. Da luglio, ricorda ancora Minniti, non ci sono quasi stati più arrivi; centomila in meno che nel corrispondente periodo dell’anno precedente. Notizie che hanno fatto capolino (solo capolino, eh; senza i titoloni riservati al minimo reato commesso da un extracomunitario) anche sulle prima pagine di quei vostri quotidiani. Nascoste nelle pagine dell’economia, invece, sono altre notizie. Dati che rendono ridicole le vostre fesserie. “I disastri dell’Euro”? Continuiamo a esportare a più non posso, macinando record su record. “La Germania se ne approfitta”? Siamo il paese della UE che meglio ha mantenuto le proprie quote di mercato dall’introduzione dell’Euro. Sì, meglio anche dei tedeschi. Fesserie che diventano pericolose quando applaudite l’introduzione di dazi. Un paio di sere fa la CNN commentava quelli voluti da Trump. Ha mostrato un grafico. Non c’è solo la Cina a avere un forte attivo nella bilancia commerciali con gli USA. Ci sono anche il Giappone, la Germania e ... e già: l’Italia. Un grande paese piccolo solo nella visione di chi non lo conosce. Che ha problemi, e gravi, ma tutti interni, suoi specifici, da risolvere lavorando con serietà e a lungo. Altro che colpi di bacchetta magica. Lo ammettono, solo ora, anche i vincitori delle ultime elezioni. Le loro promesse sono realizzabili? Sì, forse, nel giro di tre o quattro o cinque o ... anni. Sempre che sappiano governare perlomeno come i “pidioti”. Voi speratelo e intanto preparatevi a ricominciare con il vostro mantra. Per un po’ funzionerà ancora. Poi “ma il PD, ma i pidioti” diventerà cosa vecchia. E saranno cavoli vostri.