giovedì 22 marzo 2018

Sto pensando a una poesia d’amore e a Ezra Pound.

Al povero vecchio Ezra. Una vittima della disinformazione, a modo suo. Di una guerra di propaganda che ha condotto dalla parte sbagliata. Saprete. Ogni settimana, per un’ora, dai microfoni dell’Eiar parlava alle truppe alleate per convincerle delle ragioni del fascismo. Di un regime che aveva sempre appoggiato. Per amore dell’Italia, paese in cui aveva scelto di vivere, e per illusione. Quella che poteva avere un poeta americano, lontano dal proprio mondo. Poeta che divenne così traditore. Americano rinchiuso dagli americani alla fine della guerra. In condizioni bestiali. Da impazzire. E impazzì, o quasi. Mentre il suo nome era dannato. Per quelle trasmissioni. Per l’antisemitismo in cui a volte era sfociato il suo anticapitalismo. Nome dannato, e oggi abusato, ma impossibile da cancellare. Dalla storia della cultura, prima che della letteratura. Cui si deve, per me più che a ogni altro, la nascita dell’estetica moderna. Nei suoi versi espressione e forma si combinano libere dal canone. Versi che cantano, pur senza metro né rima, per rime interne e assonanze. Fatti di parole scelte con orecchio finissimo e straordinaria sensibilità. Quella che lo fece innamorare della cultura giapponese. Che gli impose di aiutare Joyce a trovare un editore. Sì: il nostro mondo passa da lui. Ne parlavo con un amico ieri. Lo capì, ma ci vogliono i giganti per capire i giganti, Pier Paolo Pasolini. PPP che andò a trovarlo, osando sfidare gli anatemi dei soliti partigiani del 26 aprile. PPP che mi ha spinto a leggerlo. E a scoprire così la Cappella Sistina del modernismo. Più ancora del mio amato Ulysses. Parlo dei Cantos, che ho affrontato già da adulto. Che ho letto, riletto e ancora non capito. Non del tutto. In cui si entra in punta di piedi e si resta con la bocca aperta, per giorni, guardando all’insù. Come in una cattedrale gotica. Come mi è successo con la Divina Commedia. Davanti all’ascesa vertiginosa delle colonne e nervature di un pensiero che sembra perdersi nell’infinito. Oltre la miseria dei giorni e della politica. Eterno come i versi di questa poesia. Una delle più belle d’amore che conosca. Delicata e forte. Di poche parole e mille immagini. E’ sempre sua. Del vecchio, “cinico”, Ezra. Quando la lessi la prima volta, nel commento si diceva che Pound l'avesse dedicata a sua figlia. Ora so che non è vero; che era destinata a un'altra giovane donna. Non importa. Robert Frost diceva che una poesia "non significa ma è". E anche perché anche io ho una figlia, e nella lingua dei miei nonni valtellinesi “rais” vuole dire sia radici che figli, continuo a pensare che questa sia bellissima. Tanto da volervene offrire una traduzione.
Una ragazza.
L’albero è entrato nelle miei mani,
La linfa ha risalito le mie braccia,
L’albero è cresciuto nel mio petto-
Verso il basso,
I rami crescono fuori di me, come braccia,
Albero tu sei,
Muschio tu sei,
Sei le violette con il vento sopra.
Una bimba -così alta - tu sei,
E tutto questo è follia per il mondo.

Questo è l'originale.

A girl.
The tree has entered my hands, 
The sap has ascended my arms, 
The tree has grown in my breast- 
Downward, 
The branches grow out of me, like arms. 
Tree you are, 
Moss you are, 
You are violets with wind above them. 
A child - so high - you are, 
And all this is folly to the world.

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