lunedì 12 marzo 2018

Rispetto.


Questo gli hanno mostrato i diecimila che si sono riuniti sabato per commemorarlo. Idy Diene, il mio coetaneo senegalese ucciso a Firenze, però, quel rispetto lo avrebbe meritato anche da vivo. Lo avrebbe meritato lui e lo meritano quelli come lui.
“Sarebbe potuto restare a casa sua”. Ho letto espressioni come questa nei commenti dei soliti mentecatti. In quel “sarebbe potuto” c’è quasi tutto. Avrebbe potuto arrendersi. Rinunciare a lottare. Accettare il destino scritto per lui alla nascita. Restarsene in Senegal accontentandosi di sopravvivere. Di essere come tutti, dalle sue parti. Invece aveva trovato il coraggio di andarsene. Come accade a pochi; di solito i migliori: i Marco Polo e i Cristoforo Colombo. Quelli che vogliono costruire il proprio futuro. Quelli che vogliono vedere com’è l’altro capo del mondo. E questo senza dire dei rischi che avrà corso durante il viaggio; delle privazioni e degli stenti, che avrà affrontato durante i primi tempi da noi. 
L’elmo con le corna in testa, lo spadone in mano, il fiero leghista se ne sta sul prato di Pontida. Dettagli insignificanti come il colore della pelle a parte, il longobardo che impersona aveva molto più in comune con Idy che con lui. Idy avrebbe attraversato le Alpi con la sua sippe. Il feroce geometra o ragioniere se ne sarebbe rimasto tranquillo in Scania o in Pannonia; a casa sua, appunto. A malapena con il coraggio di tirare avanti. Quello minimo che è mancato all’omicida. Sessantacinque anni ex tipografo. Di lui non so altro. Voleva uccidersi. Gli è mancato il coraggio anche per questo. Ha preferito andare ad ammazzare qualcuno per finire i propri giorni in carcere. L’omicidio come forma di suicidio civile. Un qualcuno sarebbe potuto essere chiunque, ma che non a caso è stato un nero. Nero e quindi diverso, meno umano, almeno per il tempo di premere il grilletto. Un istante di razzismo condensato. Lo stesso che è di tanti che negano di essere razzisti. Li conoscete. Quelli che “anche loro hanno il diritto di vivere” o che “in fondo sono anche loro sono brava gente”. Quelli che non sospettano neppure che loro possano essere parte di noi; che siamo tutti quanti la stessa gente, la stessa umanità. Sono ovunque come dappertutto ci sono sconfitti come l’assassino. Quelli a cui è andata male. Quelli, molti di più, moltissimi di più, che non ci hanno mai neppure provato. Prigionieri di un quartiere o di una città di provincia. Magari senza drammi. Uno stipendio, che se ne va tra supermercato e mutuo, e un grande schermo in soggiorno. Per spiare il mondo. E sognare. E invidiare. Triturati dalla vita, magari prima ancora di aver raggiunto la mezza età, per cui sarebbe facile provare pietà. Sarebbe, se non fossero così feroci. Se non avessero tanta voglia di distruggere tutto e tutti. Sono concentrati di rabbia che, invece, mi spaventano. Perché sono così tanti. Perché, temo che questo dica il risultato elettorale, sono ormai maggioranza.

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