venerdì 2 marzo 2018

Sono stanco.

Stanco come tutti di questa surreale campagna elettorale. E come tutti mi sento derubato. Meloni avvolta nel tricolore. Salvini in deriva mistica con una mano sul Vangelo. Le teste rasate dei loro amichetti, con le simil-svastiche e i saluti romani. Tutti assieme ci hanno portato via la politica. L’arte del governo che, prima di tutto, richiede la definizione di una polis comune. L’arte del possibile, secondo un vecchio tedesco con i baffoni, che richiede un sano realismo. Il senso di una realtà che già Berlusconi aveva trasformato anacronistico delirio. Ricordate come vinse le sue prime elezioni? Ergendosi a baluardo contro l’avanzare dei bolscevichi. Roba da 1954? Era il 1994. Meloni, Salvini e i loro camerati stanno facendo ancora meglio. Hanno sequestrato la politica scovando argomenti ancora più viscerali; sfruttando pregiudizi ancora più profondi. Si rivolgono a un paese invaso da milioni di africani e in preda alla criminalità che esiste solo nei loro racconti. Blaterano di sicurezza e immigrazione. Si guardano bene dallo sfiorare i problemi reali. Salari. Giustizia civile. Burocrazia. Nella loro Italia, tornata tutta bianca e tutta cattolica (anzi catto-padana) poi cosa accadrà? Tacciono. Perché sono gli eredi di partiti che hanno quasi portato il paese alla catastrofe? Perché hanno capito che scegliere, decidere, fare politica nel più proprio dei sensi, fa perdere consensi. Meglio additare capri espiatori e spacciare illusioni. Darsi alla pata-politica: all’arte di proporre soluzioni irrealistiche a problemi immaginari. E sproloquiare. Di “razza” e “difesa dall’Islam” e dei “meriti” del fascismo. E provocare. Sempre. Fino a farci scendere al loro livello. Fino a farci reagire con altre battute alle loro battute e a ridurre la nostra “sfera pubblica” al palcoscenico di una farsa. Mentre le loro cavolate dominano le prime pagine. Mentre i loro sostenitori invadono la Rete con commenti sempre e solo distruttivi. Sognando vai a sapere cosa. Forse una riedizione dell’Albania di Hoxha, lontana dall’Europa, isolata dal mondo e con le casematte sulle spiagge per fermare i migranti. Non un’utopia, ma una distopia, tra l’Ungheria di Orban (bello il selfie, Giorgia, complimenti ...) e la Russia di Putin. Una prospettiva che rende assurde le divisioni dentro la metà (temo scarsa) del paese che si ancora si sente cittadina della polis disegnata dai Costituenti. Divisioni che mi hanno fatto cadere le braccia e stancato più d’ogni altra cosa. Che andranno superate e cui non voglio contribuire in nessun modo. Neppure con un appello elettorale, per giunta inutile. Chi mi legge, appartiene comunque a quella che chiamo “l’area della decenza”. Una decenza che spero solo basti, questo sì, a farlo andare a votare. Malgrado la stanchezza. Nonostante la politica sia ancora rinchiusa da qualche parte.

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