lunedì 9 aprile 2018

Tre pillole su di noi.

Francese,
occitano, catalano, sardo, greco, albanese, sloveno, friulano, ladino dolomitico, cimbro, tedesco e, ovviamente, italiano. Partendo dalla Val d'Aosta e girando grossomodo in senso antiorario, sono le lingue parlate in Italia. A queste, e probabilmente ne ho dimenticato qualcuna, aggiungete decine di “dialetti”, dal piemontese al siciliano, a loro volta suddivisi in centinaia di varianti, che sono in realtà altre lingue neo-latine vere e proprie. Una riprova della nostra frammentazione? No, solo la dimostrazione della enorme e poliedrica ricchezza della nostra cultura. E l'invito, a chi parla di italianità per diritto di sangue, a cercare di conoscere un po' di più il nostro paese; ad abbandonare certi concetti barbarici, buoni al più per descrivere una realtà tribale, e a decidersi a diventare italiano per davvero.
Un diamante dalle mille facce.
Abraham Abulafia diceva che questo fosse la Torah: una gemma preziosa che scintillava per ognuno in modo diverso. Lo stesso mi viene da pensare di noi italiani. Non siamo tutti uguali, come voleva la retorica post-unitaria, ma non siamo neppure le schegge isolate che amano descrivere i leghisti di tutte le latitudini. Siamo le tessere di un mosaico che si è composto negli ultimi tremila anni. Un mosaico che si ostina a resistere, nonostante infiniti tentativi di distruzione, e di cui qualunque straniero coglie subito il disegno complessivo. Siamo noi, piuttosto, forse perché abbagliati dal nostro peculiare riflesso, che a volte non vediamo tutta la gemma.

Quelli di su e quelli di giù.
Che qualche milione di meridionali sia emigrato in Settentrione, nell'ultimo secolo, è cosa stra-nota. Per qualche bizzarra ragione, però, quando si pensa ad un milanese, per esempio, ci si dimentica che con ogni probabilità si tratta di qualcuno che ha perlomeno un nonno pugliese o di qualche altra regione del Sud. Ancora meno ci si ricorda dei settentrionali che, certo in epoche più lontane, hanno fatto il cammino inverso. Dei piemontesi e liguri che gli Altavilla chiamarono a “latinizzare” la Sicilia o degli altri “lombardi” che, sempre in età normanna e angioina, si stabilirono in Basilicata. E questo senza ricordare i molti che dalle vallate alpine sono andati a fare il mestiere di soldato presso i Borboni, o che a Benevento e “dintorni”, quasi mille anni prima, i Longobardi erano diffusi almeno quanto nelle regioni dove i loro pronipoti ora amano andarsene in giro con le corna in testa. Insomma, su è giù per lo stivale, ci si è sempre mossi e non sempre nella stessa direzione. Il risultato di questo gran rimescolamento? Be', siamo noi.

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