domenica 21 gennaio 2018

“Così ha condannato a morte la mia famiglia.”

Parla di un doganiere svizzero, Liliana Segre. Erano riusciti ad attraversare il confine e pensavano di aver raggiunto la salvezza, ma lui li aveva fatti tornare indietro. Applicando il regolamento, Rifiutandosi di chiudere un occhio, nonostante altri l’avessero fatto in quel periodo. Una persona per bene, forse. O che si vedeva come tale. Li aveva riconsegnati ai colleghi italiani perché la barca era piena. Perché non si potevano accogliere tutti. Perché cose vuoi mai che gli succeda, dall’altra parte. Perché se cercavano di varcare la frontiera di nascosto, in fondo dovevano essere dei criminali. Non si sarà detto “vanno aiutati a casa loro”, il funzionario elvetico; non si usava ancora. La codardia, a volte, s’inventa nuove maschere. Per lei è stato l’inizio dell’inferno. Prima in carcere. Poi ad Auschwitz. Lei che allora aveva tredici anni e oggi è un’anziana, nobile, signora. Nobile come le pietre di una cattedrale o il tiglio secolare che dà ombra a un’intera piazza. Come tutto quel che conserva la memoria e ne offre testimonianza. Lei lo fa senza praticare sconti. Non quando racconta dell’approvazione delle leggi razziali e di come lei, ebrea, fu cacciata da scuola. Nell’indifferenza di quasi tutti. Indifferenza che continuò quando cominciarono le deportazioni e che, dice, è il più terribile dei nemici; che non consente alcuna difesa ed è stato il nostro più grande peccato. Non fa sconti neppure a se stessa. Ad Auschwitz è sopravvissuta a tre selezioni e, racconta, ogni volta, quando le è stato fatto capire che poteva continuare a vivere, è stata travolta dalla gratitudine. Verso i propri aguzzini. Un sentimento che ricorda per dare una misura della propria dis-umanizzazione; della sua riduzione a mera entità biologica, per citare implicitamente Agamben. Un istinto, un anelito vitale, da cui si assolve, guardando ora, da nonna, alla ragazzina che era. Così giovane. Sola. Il padre già finito nelle camere a gas. In un mondo fatto di filo spinato, fame, botte e mucchi di cadaveri accanto ai forni crematori. Poco più di una bambina e costretta a fissare Medusa negli occhi, per usare un’immagine di Primo Levi. Senza però restarne impietrita. Trovando la forza di resistere anche alla marcia della morte nella primavera del ’45. Di sopravvivere e tornare a vivere. Di sposarsi e avere dei figli. E poi, con gli anni, dolorosamente, faticosamente, di raccontare. Appunto, di testimoniare. Come sicuramente farà anche da Senatrice a vita. I cattolici credono che intervenga lo Spirito Santo a guidare i cardinali durante il conclave. Non so chi lo abbia ispirato, ma, con lei, il presidente Mattarella ha scelto la persona giusta nel momento giusto. Mentre si tornano a vedere croci uncinate e saluti fascisti, qualcuno che ci ricordi quello che è stato prima che torni a essere. In forme nuove, certo. Con vittime diverse, forse. Con il cinismo, la crudeltà e il disprezzo di sempre. Esagero? Leggete i commenti alla notizia della nomina di Liliana Segre. Leggete, magari, quelli all’articolo che le dedica il Giornale. Astio. Addirittura odio. Un’altra mantenuta. Cosa vogliono ancora questi ebrei. Volgarità e ignoranza. Un’altra pidiota. E intanto noi paghiamo. Il solito, eterno, benaltrismo. Ma allora le vittime di Tito. Ma allora .... Di che chiederci se siamo davvero ridotti così. Se, come comunità nazionale, vogliamo tornare ad essere quello.

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