lunedì 8 gennaio 2018

Colpa dello stoicismo tardo-imperiale?

Pasolini, perlomeno, lo attribuiva a quello. Di sicuro, dentro la nostra società c’è una specie di buco nero. Una grande massa immobile e inamovibile, refrattaria a ogni cambiamento. Che si adatta ai mutamenti della storia, ma solo lentamente e sempre controvoglia. Siamo il paese dove nessuno è fesso, d’altra parte, a noi non la dà a bere nessuno e sappiamo benissimo che è meglio un uovo oggi della gallina domani. Questo cinismo, in qualche occasione ci è stato utile, intendiamoci. Forse dobbiamo ringraziarlo per non averci fatto bere fino in fondo il calice della propaganda fascista, per esempio. La fede immarcescibile nel führer era roba da tedeschi; noi, nel duce, ne abbiamo avuta solo fino a che non sono iniziate a cadere le bombe. Resta che alle nostre latitudini è inutile sognare rivoluzioni. Anche in senso lato. Anche tra mille virgolette. Per capirlo, basta esercitare la memoria. Tornare alle politiche del 1976. Anno mirabilis. Dopo un decennio di continua avanzata, sull’onda lunga di un movimento planetario, il PCI colse il suo miglior risultato. Pur con un segretario come Enrico Berlinguer (il carisma, per capirci, è quella roba che aveva lui ...) però, arrivò solo al 34%. E la sinistra nel suo complesso non superò il quaranta. Numeri ottenuti in condizioni eccezionali e che è meglio tenere a mente. Che tracciano l’unico corso d’azioni possibile ad una forza che voglia davvero essere riformista. Forza che può avere successo, certo a fatica, certo in modo lento e graduale, solo se riesce a elaborare un progetto che convinca anche una parte dei moderati; del restante sessanta (o settanta o ottanta o ...) per cento. Niente di nuovo sotto il sole? Prodi o no, il paese è sempre quello: non sarebbe l’Italia, altrimenti. Ovvio, ma, a quanto pare, non per quelli che preferiscono isolarsi in posizioni più o meno di “testimonianza”. Ammirevole, la loro coerenza; la loro intatta (certo che dare D’Alema dell’intatto ... ) fede negli ideali. Ammirevole se la politica fosse un esercizio retorico e non, come diceva quell’altro tedesco, l’arte del possibile. A meno che governare non sia tra le possibilità che a loro interessano.

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