mercoledì 10 gennaio 2018

Sfilano le camicie nere per le vie di Roma.

Non marciano al passo, ma sono inquadrate come reparti militari. Sembra una foto del ventennio. E’ di un paio di giorni fa. Loro appartengono a CasaPound. Come ogni anno, commemorano i militanti di estrema destra uccisi il 7 gennaio 1978 in piazza Acca Larentia. Un lutto risalente a un periodo doloroso per tutti. Una memoria che nessuno può vietare sia onorata. A essere proibite, però, sono proprio manifestazioni come quella. La legge n.645 del 20 giugno 1952, per la precisione, dice che è un reato esaltare pubblicamente “esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo.” Un reato che si compie mentre quelle teste rasate continuano la loro parata in perfetto stile fascista senza che nessuno intervenga. Non la magistratura. Non le forze dell’ordine. Non il ministro degli Interni. Certo, viene da mandare a quel paese Minniti. Se ci fosse qualcun altro al suo posto, però, cambierebbe qualcosa? La figlia di Ezra Pound è in causa col movimento che, secondo lei, abusa del nome del padre. Il ministero dell’Interno ha fatto avere al Tribunale di Roma una nota informativa: un rapporto di polizia datato 11 aprile 2015 in cui CasaPound è descritta come un ente benefico per la tutela delle fasce deboli e dell’occupazione; addirittura come un’organizzazione ammirevole per “lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nel rispetto delle gerarchie interne.” Parole adatte a un volantino pubblicitario. Qualche riga dopo troviamo che CasaPound avrebbe l’obiettivo “di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio”. Come dire che, chiamata a occuparsi di un’associazione sospetta di apologia del fascismo, la polizia ha commesso, o quasi, il reato di apologia del fascismo. Neanche in una commedia di Ionesco. Del tutto naturale, però, quando si ha una storia tormentata come la nostra. Nel 1945 abbiamo dovuto scegliere: ricominciare da zero o salvare il salvabile? Abbiamo deciso di mettere una pietra tombale sul passato, forse perché di quel passato troppi erano stati complici. In sostanza nessuno, tra prefetti, magistrati o poliziotti fu costretto a cambiar mestiere perché era stato fascista. E interi settori dello stato sono rimasti fascisti. Dapprima anche negli uomini. Poi, comunque, in certi valori di fondo. E’ un dato di fatto. Un filo nero che attraversa i decenni che ci separano dalla caduta del regime. Reale come quei seimila neo-fascisti (secondo le loro valutazioni) che passano divisi per compagnie e battaglioni. Qualcosa che faremmo bene a ricordare anche in campagna elettorale. Mentre litighiamo tra noi per decidere chi è più democratico degli altri, rischiamo che la nostra democrazia diventi altro.

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