giovedì 25 gennaio 2018

E naufragar m’è dolce in questo mare,

è uno dei versi più consolatori che conosca. Altro che “pessimismo leopardiano”. Che espressione infelice. O forse necessaria, per rendere il pensiero di Leo in qualche modo compatibile con i bigotti programmi del sempre bigotto ministero. Quella e l’insistenza sul suo aspetto. Tutto per fare di lui, un genio epocale, poco più che un estensore marchigiano della legge di Murphy. Le Marche papaline, quelle sì sono importanti. La soffocante Recanati di allora. Un posto da cui fuggire. E la biblioteca di suo padre. Monaldo (chi se lo dimentica ‘sto nome? E, infatti, è una delle poche cose di Leo che ricordano tutti) che doveva in qualche modo somigliarmi, capace come me di spendere in libri quasi tutto quel che aveva. Libri che sono il luogo in cui Leo si rifugia. Un altro paese in cui si parla la lingua della libertà; nel suo caso, il greco di Epicuro. Per lui il punto di partenza di un altro viaggio. Fino nel cuore della modernità. E’ il primo a compierlo, non solo nella nostra letteratura. Verso dopo verso, si scava dentro. Un secolo prima che Freud arrivi a dare un nome all’Io, lui affida alla poesia il proprio. Come poi faranno e continuano a fare legioni d’imitatori. Il suo punto di arrivo? La profondissima quiete che nel cuor si finge. E gli interminati spazi, e i sovrumani silenzi, oltre quella siepe. Oltre la ragione epicurea, in cui da moderno non può più trovare consolazione. Nella sua capacità di immaginare. Nell’essenza, se volete, della propria umanità. Senza rifiutare il reale. Accettandolo con tutte le sue implicazioni. Con titanico eroismo. Questioni che affronta anche nello Zibaldone, dandosi poche risposte e facendosi molte domande. Le stesse della filosofia dei secoli successivi. Nietzsche, certamente, ma anche Heidegger, Unamuno e Sartre, ne fossero coscienti o meno, lo avessero letto o no, hanno dialogato con lui. Gli stessi filosofi che mi hanno influenzato? Mi definisco esistenzialista, ma mi andrebbe bene anche essere chiamato umanista o leopardiano. Di certo vivrei allo stesso modo. Secondo un’etica che è, prima di tutto, un’etica del fare. Che cosa intendo dire? Che ho scritto queste righe pensando a certi miei/nostri amici, desolati e sconsolati, che soffrono, oh come soffrono, spaparanzati sui loro divani. Amici cui Leo direbbe: “Piantatela di frignare! Alzate le chiappe e datevi da fare!”

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