mercoledì 7 febbraio 2018

Michelangelo Merisi da Caravaggio,

per gli amici Emme. Perlomeno per me, da quando ho letto la splendida biografia con quel titolo (in italiano, M. L’enigma Caravaggio, edita da Mondadori) opera di Peter Robb. Orgoglioso com’è del proprio lavoro, sarà contento di sapere che la sua mostra milanese ha avuto uno straordinario successo. Si è appena chiusa e, in quattro mesi, ha attirato a Palazzo Reale quasi mezzo milione di visitatori. Tutti ammirati. Tutti stupefatti davanti agli istanti catturati in quadri come il “Ragazzo morso di un ramarro”. Capolavori di un genio che segna un prima e un dopo; un vero punto di svolta nella storia dell’Arte. Amare Emme, però, è anche capire che non nasce dal nulla; che è figlio di una terra e di una tradizione. Di famiglia bergamasca, anche la sua pittura sembra arrivare dal confine tra Lombardia e Veneto. Il suo realismo, a Milano e dintorni, ha precedenti remoti: in nuce, è già nel maestro (forse costantinopolitano) che in età longobarda ha affrescato Santa Maria Foris Portas. La sua capacità di modellare con la luce, invece, sembra arrivare da Venezia: discendere da Giovanni Bellini; avere un debito con Antonello da Messina e il suo soggiorno in Laguna. E’ nuovissimo, Emme, eppure ha precursori anche molto più diretti. Un altro bergamasco, Giovan Battista Moroni, uno dei pittori che più amo, perlomeno nei suoi intensi ritratti sembra anticiparlo. Moroni che ha imparato il mestiere dal suo conterraneo Moretto; un altro che, date un’occhiata al suo “Cristo e l’angelo”, a volte sembra caravaggesco cinquant’anni o quasi prima di Caravaggio. Tutto questo senza sminuire la rivoluzione di Emme. Solo per ribadire come si possa rintracciare una genealogia della sua pittura; come si allunghino nel tempo i fili che ne intessono la poetica. Un discorso che farebbe sorridere un critico cinese. Il conoscitore di un’arte la cui storia sembra fluire da sempre senza cesure. I cui pittori pare dipingano sempre gli stessi alberi e montagne, padiglioni e laghetti. Soggetti che, però, valgono come note musicali, definite in modo immutabile, ma con cui si possono comporre sempre nuove melodie. Certo, per distinguerle serve orecchio. O meglio occhio. Al nostro, ignorante, è impossibile capire se un dipinto cinese abbia cinquanta o mille anni. Per gli intenditori, invece, è chiaro chi siano i maestri e chi i meri seguaci; quali opere siano capolavori e quali no. È d’obbligo citare Ortega y Gasset. L’arte astratta, scriveva, opera una divisione tra chi conosce e chi non sa nulla. In questo senso l’arte cinese è già perfettamente astratta. Moderna da millenni. Senza mutamenti? No, che gli artisti modulano secondo il proprio carattere e sensibilità, pur senza cercare l’innovazione fine a se stessa. D’altra parte, come ha scritto Borges, se la poesia fosse fatta di novità durerebbe lo spazio di un mattino. E tutto quel che è bello e vero, urna greca di Keats compresa, ha un passato alle spalle. Lo aveva anche un rivoluzionario come Emme, che con i sui pennelli ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Pretendono d’essere perfettamente nuovi solo i ciarlatani. Sono coscienti della propria storia, invece, tutti quelli che conoscono il proprio mestiere. Grandi artisti o modesti artigiani, tutti quelli che cercano di costruire il futuro.
P.S. Ho scritto di Emme usando il presente? Basta guardare certe inquadrature di film e le luci di certi clip musicali: è sempre con noi.
P.P.S. In questo periodo scrivo solo di politica? Verissimo. L’ho fatto anche qui sopra.


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