venerdì 2 febbraio 2018

Il presidente degli industriali di Cuneo

invita i genitori a tenere in conto le esigenze delle aziende prima di far studiare i figli ...
Non si sta preparando a un futuro lavoro, quel ragazzo con la testa infilata tra le pagine di un poeta francese o di un filosofo tedesco. O forse sì, ma non gli importa. Non più di tanto. Sta resistendo. Sta salendo in montagna. A te sembra stia perdendo del tempo? Perché ti accontenti. Addirittura, ti ritieni soddisfatto. Un felice ingranaggio del grande tritacarne. Vittima quando è il tuo turno. Carnefice quando puoi. Con dentro tutta la rabbia dell’impotente. Quel ragazzo, invece, non si è ancora arreso. E’ disposto ad andarsene altrove. A cercarsi altri amici e a imparare una lingua nuova. Prima di lui, lo ha fatto il piccolo Giacomo. Quanto doveva opprimerlo la Recanati papalina in cui stava crescendo. Per fortuna c’era la biblioteca di suo padre, e lui si è rifugiato in quei libri. Ha imparato il latino e il greco. Ha trovato tra gli antichi qualcuno con cui parlare di quello che altrimenti, lì, in quella società, avrebbe solo potuto tacere. Una conversazione cui possiamo partecipare leggendo lo Zibaldone dei suoi pensieri. Pensieri che possiamo solo intuire, invece, quelli di Carlo Emilio. Introverso. Intrattabile. Chi ha conosciuto Gadda lo ricorda così. Anche lui fuori posto, nella Brianza / Maradagal della Cognizione del dolore. Anche lui rifugiatosi nei libri; dentro una lingua nuova. L’italiano. Esotico, per lui che era cresciuto con il dialetto nelle orecchie. Un italiano che ha amato visceralmente. Che ha esteso, stirato, esplorato in ogni angolo. Sempre malcontento. Sempre alla ricerca di qualcosa. Della parola romanesca da infilare ner Pasticciaccio. Della libertà che cercava anche Beppe. Il mio amato Beppe. Un bell’uomo, proprio un bell’uomo, mi ha detto una splendida e anziana signora che lo conosceva e che ho avuto la fortuna d’incontrare. Alto e con la sigaretta sempre in bocca, un po’ come lei, mi ha detto ancora, riempiendomi di uno stupido orgoglio e facendomi fare gli scongiuri. Nato nel 1922 e morto nel 1963, Giuseppe Fenoglio. Gli eroi muoiono giovani e lui è stato il mio eroe. Ancora oggi, se dovessi indicare il libro fondante di una possibile epica dell’Italia repubblicana, sceglierei Johnny. Il capolavoro del più improbabile dei partigiani. Un ragazzo con la testa tra le nuvole; persa nell’Inghilterra di Cromwell. Forse per questo l’ho preso a modello. Aveva lasciato nelle Langhe del ventennio solo il corpo, mentre il suo spirito parlava in inglese. Come per anni ha fatto anche il mio. Sei andato via, mi dicono i conoscenti. Certo, non spiego mai loro, ma non quando ho fatto la valigia. Molto prima. Un’estate, in cantiere. Grazie a un piccolo dizionario inglese regalato dall’Espresso. Cinquemila vocaboli che mi sono martellato in testa, con una pronuncia orrenda e ricordando a malapena la grammatica studiata alle medie. Tutto per non restare in quella Padania che ancora non si chiamava così, ma che era già tutta leghista anche senza la Lega. Perché sarà vero che, se stai male in un paese di diecimila abitanti, stai male con te stesso, ma io volevo anche altro. Andarmene a Big Sur e a passeggio per il Village e in giro per tutta San Francisco. Lontano come deve essere quel ragazzo, perso dentro quel libro. In un posto dove nessun benintenzionato e ragionevole sconfitto gli ricorderà mai quale sia il suo posto.

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