domenica 11 febbraio 2018

Solo per cercare di farti capire.

ti racconterò di qualcosa ho visto una ventina di anni fa nell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso dell’India. Una regione come la Lombardia? Sì, ma con duecento milioni di abitanti. Poi tu fai il sovranista, neh ... Ma andiamo avanti. Anzi no. Siamo fermi, in colonna. Una colonna di camion coloratissimi, auto di ogni età, carri tirati da buoi e cammelli. Qua e là ci sono anche degli elefanti. La strada che va in città è sempre trafficata, ma stamattina dei lavori in corso la bloccano quasi del tutto. Tanto che dopo un po’ mi sveglio. Sì, perché non sono io a guidare. Impossibile, nel traffico indiano. Ho un autista. Si chiama Ash e, nonostante non voglia smettere di chiamarmi sir e di indossare l’uniforme, “ma cosa direbbero gli altri sir?” è mio amico. Quando apro gli occhi, dunque, nel rispetto dei ruoli sono sul sedile posteriore dell’Ambassador (una specie di Ford Granada fatta in loco; un’auto di lusso perché girano ancora frotte di Fiat 1100). Guardo l’orologio. E’ tardi e siamo ancora lontani da Lucknow (Mai sentita nominare? Una cittadina. Con tre milioni di abitanti). Mi stiracchio e guardo fuori. Proprio in quel momento stiamo superando il maledetto cantiere. Stanno facendo uno sbancamento senza usare macchinari. Degli uomini riempiono con un paio di badilate dei piccoli cesti che una fila di donne si carica sulla testa e va a svuotare a cinquanta metri di distanza. Quello spettacolo prima mi riempie di pena; come sono magre quelle donne. E devono lavorare a quel modo: coperte di stracci e a piedi nudi nel fango che gli arrivava alle caviglie. Poi, complice il ritardo che stiamo accumulando, m’irrito: accidenti, fino a pochi anni fa ho fatto il manovale e con una carriola, da solo, potrei fare il lavoro di una ventina di quelle disperate. Una considerazione di cui, con la mia solita insensibilità, rendo partecipe Ash. Lui non si scompone. “Ma quelle donne non hanno i soldi per comprare una carriola,” mi spiega, con il sorriso che usa quando vuole farmi sentire un deficiente. “E se una facesse il lavoro di venti, le altre cosa farebbero?” continua, sempre sorridendo, prima di finire con la frase con cui tronca le discussioni che lo mettono a disagio: “E poi si è sempre fatto così”. Non aveva capito niente? Sì: proprio come te! Dico: sei favorevole alla proposta di tassare i robot. Geniale. Esportiamo alla grande e tu vorresti cominciare una guerra dei dazi. Le nostre aziende, se proprio, avrebbero bisogno di più innovazione e tu te ne esci con questo. Ma allora leviamo le macchine per la raccolta del riso e torniamo ad avere le mondine: netta ripresa dell’occupazione femminile. Che cretinata! E se, invece, facessimo DAVVERO pagare le tasse sui profitti, comunque siano ottenuti? Sì, anche quelli da attività finanziarie (dove di robot non ne girano). Si scomoderebbe troppa gente, eh? Non sai cosa sia il lavoro, ma sei furbo. Qualche giorno in fabbrica, però, dovresti passarlo. Cerca una delle poche catene di montaggio che restano e osserva. Ti piacerebbe essere al posto di uno di quegli operai? Fare un lavoro così monotono? No: non vorresti esserci tu né che ci andassero i tuoi figli. Ecco: per loro dobbiamo, piuttosto, cercare di creare un’economia come quella dei paesi più sviluppati: dove le macchine svolgono mansioni ripetitive e gli uomini fanno cose più intelligenti. Dove ci sono lavori diversi dal tuo, insomma. Sì, perché se la Lega ti sostituisse con una macchinetta per sparare cavolate, a questo punto nessuno se ne accorgerebbe.

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