sabato 17 febbraio 2018

Il fascismo non sta tornando.

Non se n’è mai andato. C’era già prima del regime. Gobetti voleva dire questo, definendolo “autobiografia della nazione”. E’ rimasto negli apparati dello Stato anche dopo il 25 aprile perché non si poteva ripartire da zero. E’ rimasto anche in tanti italiani. Nella voglia di uomo “forte”; di un taumaturgico “lui” capace di guarire i mali del paese senza scontentare nessuno. E’ rimasto anche in chi si ritiene lontano dal fascismo, ma pronuncia frasi fasciste nello spirito: “Il governo dovrebbe fare una legge.” A tornare sono i simboli del fascismo, ora esibiti con orgoglio nelle nostre strade. E' nuova l’aperta rivalutazione del ventennio. Fenomeni che non si spiegano solo con la crisi. Che si chiariscono proprio ripensando all’Italia di quasi un secolo fa. Rispetto allora non ci sono i reduci della Grande Guerra; non c’è una generazione che ha imparato a uccidere nelle trincee. Solo questo, temo, sta contenendo il risorgere delle squadracce. E il quadro internazionale, prima che la solidità delle istituzioni repubblicane, rende impossibile una nuova marcia su Roma. Come nel 1922, però, regnano la frustrazione e disillusione. Allora erano in chi tornava dal fronte per scoprire che nulla era cambiato; che i suoi sacrifici non erano serviti a niente. Oggi i disillusi e frustrati sono decine di milioni. Non solo in Italia. Sono gli ultimi e dimenticati? Possono sentirsi così alcuni dei giovani con la testa rasata. Quelli che li guardano con simpatia, però, appartengono al ceto medio. O vi appartenevano fino a ieri. Vittime della globalizzazione? Sì, ma non solo della concorrenza cinese. Soprattutto del trionfo del neo-capitalismo. Vivono a suburbia e ovunque è suburbia, senza possibilità di fuga. Sono gli sradicati di cui scriveva già Pasolini. I testimoni del fallimento del consumismo. Perché una marca di scarpe non sostituisce un’identità. Perché un modello di telefonino non può sostituire un ideale. E senza identità e ideali tutto diventa insopportabile. Mentre sono felici solo i produttori di psicofarmaci, si cercano capri espiatori e fioriscono i leghismi. Definiscono di nuovo dei gruppi, seppure per esclusione: “Noi non siamo loro”. Indicano bersagli conto cui sfogare la rabbia. L’inconfessabile disperazione. Dietro la ferocia dei commenti in rete si legge l’invidia verso i migranti. Anche quando sono stipati su un barcone. In procinto di affondare, ma non in quell’ufficio o fabbrica; non dentro il grande tritacarne. Un desiderio di fuga che spiega anche la nostalgia per Mussolini. Per un’epoca di disastri anche economici, ma di cui non si sa nulla. Fantasticata. Trasformata in un’età dell’oro. Per un fascismo che è l’unica narrazione novecentesca a non aver sofferto il passaggio del millennio. Viva come lo sono i fantasmi: perché già morta e sepolta all’arrivo del mondo McDonald. Un fascismo che pure restituisce identità, con la sua mistura di nazionalismo e razzismo, e che ha la forza del nulla. Interpretabile come garanzia di conservazione da chi ha ancora qualcosa da perdere; visto come promessa di distruzione da chi, pur di uscire dalla gabbia in cui si è ficcato, è pronto a tutto. Un nulla che soddisfa bisogni immateriali e che un nuovo antifascismo deve sfidare su questo piano. Aumentare il Pil non basta. Bisogna ricostruire una società civile ridotta a somma di rancorose solitudini. Creare di nuovo senso di comunità e apparenza. Con la forza delle idee e il coraggio degli ideali. Giorno dopo giorno. Per tutto il tempo che ci vorrà.

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