venerdì 8 dicembre 2017

Il partigiano, il sergente e il deportato.

Ci sono tre scrittori che hanno un posto speciale nel mio cuore.
Non sono i miei maestri. Non potrebbero esserlo. Nessuna scuola al mondo può insegnare a scrivere pagine come le loro. Sono semplicemente i tre scrittori che più amo; di cui mi sarebbe piaciuto essere amico, con cui avrei voluto parlare per ore. Appartengono a una categoria speciale. Se la vocazione è una chiamata, loro ne hanno avute due. Sono stati chiamati a scrivere e a scrivere proprio quei libri. Sono dei santi testimoni; per l’etimologia e non solo, dei martiri. Dopo aver vissuto quel che han vissuto, avevano solo due scelte: tacere o scrivere di quello. Poi anche d’altro, ma prima di quello. I tre sono Beppe Fenoglio, Primo Levi e Mario Rigoni Stern. Il primo è anche quello che più mi è vicino. Gli somiglio. Per la sigaretta sempre in bocca, diranno i miei amici. Per il rapporto con l’inglese. Per entrambi la lingua della libertà; della fuga da un mondo che sentivamo opprimente. La provincia fascista per lui. La provincia che aveva smesso la camicia nera, ma era rimasta in fondo la stessa, per me. Primo Levi e Mario Rigoni Stern sono due grandi sottovalutati. Non fossero mai stati ad Auschwitz e Nikolajewka, sarebbero comunque nella storia della nostra letteratura; sono due maestri della nostra lingua. Basta leggere i loro racconti. Il Levi scrittore di fantascienza, in particolare, sta là, accanto a Buzzati e Calvino. Passeggiare nei boschi di Rigoni Stern è respirare un italiano limpido come un’alba in montagna. L’aggettivo giusto è “croccante”. Tutti assieme sono la nostra Epica. L’unica, vera, che sia stata scritta da quando siamo tornati a essere una nazione. Julio Llamazares, lo scrittore di quel piccolo libro straordinario che è “La pioggia gialla”, dice che “la Letteratura è la memoria storica di un paese”. Ecco: quei tre sono, più di ogni altro, la nostra memoria storica. “Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo come propriamente è stato. Significa impadronirsi di un ricordo come si presenta nell’istante di un pericolo.” Lo scrive W. Benjamin nelle “Tesi di filosofia della storia.” Il partigiano, il sergente e il deportato sono lì, sulla carta, per diventare nostri. Basta leggerli per saper riconoscere il pericolo. Ricordarsi della loro resistenza per trovare le ragioni della nostra.

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